Lettera a un medico palermitano - Live Sicilia

Lettera a un medico palermitano

L'inchiesta e l'intercettazione
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2 min di lettura

Mi hai chiamato al telefono di mattina presto, che ero appena tornato dal mare di ottobre. E mi hai rimproverato con l’affetto della nostra amicizia. “Ma perché scrivi certe sciocchezze sui medici? E’ normale, due dottori non ti diranno mai la stessa cosa. Non capita anche per i giornalisti?”.  E’ vero, però mi illudo. Penso che la tastiera non sia letale come lo stetoscopio. Conosco storie di persone ferite , incenerite e assassinate da un articolo improprio. Infatti, ci sforziamo di scrivere con parole nette. Sterilizzate. E non ci riusciamo davvero mai. Mi illudo. Credo che il medico sia un uomo migliore di un giornalista e non uso lo squallore di un alibi. Credo che abbia l’obbligo di aspirare alla perfezione. Nessuno vuole il conforto delle braccia di un giornalista, figura più adatta per le maledizioni. Tutti lo cercano sul petto di un camice bianco, specialmente nelle sere degli ospedali. Ti sei arrabbiato per la storia della clinica Latteri, del farmaco discusso e delle intercettazioni. Senti puzza di montatura. Chissà.  E’ che stiamo ancora tremando. Non sappiamo quanti elementi penalmente rilevanti ci siano nelle intercettazioni. Basta il materiale disponibile per scrivere tranquillamente che la sanità privata è una bestemmia. E che la disumanità è l’approdo forzato, magari involontario, dei seguaci di Ippocrate che calcolano il profitto, segnandolo alla voce dei valori fondamentali nell’agenda della priorità.

Comprendo la tua rabbia di valoroso soldato della corsia che non ha mai aperto uno studio, nonostante un curriculum chilometrico e un’esperienza ragguardevole. “Alla fine – hai pazientemente rumoreggiato – tutti accorrete da noi, nella tanto vituperata sanità pubblica. Nel mio reparto scoppiamo di barelle. Ci intimano di tagliare i costi. Saltelliamo in equilibrio precario tra conti e coscienza”. Poi hai raccontato una bella favola, la trama di un colpo di tosse. Uno è venuto da te dopo centomila giri irrisolti, senza diagnosi né terapia. Tu lo hai ascoltato tossire e ti sei ricordato di un eguale suono cavernoso avvertito vent’anni fa, l’identica tonalità. L’esame ha confermato l’eccellenza del tuo orecchio. Hai riconosciuto una tosse in do minore. E l’hai risolta.  “La medicina è un’arte”. Finalmente ti sei concesso un sorriso alla cornetta.

Parole adatte alla morale finale. La medicina è un’arte. Non è la scienza degli accertamenti a strascico nella cabala delle dita incrociate. Non è la distanza di un primario della tua “azienda” che comunica le notizie dolorose in piedi e alla svelta, perché non ha il coraggio di guardare negli occhi le anime appese che gli chiedono vicinanza. Non è la voracità aguzzata sul prezzo del farmaco.
La medicina è un’arte difficile come la speranza di chi ama il mare di ottobre. E’ la sensibilità degli autunni. E tu ce l’hai. Ti ho visto al capezzale di un ragazzo, quando ti sei spogliato del camice  bianco che non serviva più. Ti ho visto, mentre reggevi, senza dita né stetoscopio, la pena del suo rantolo, le sue domande senza risposta. Era importante esserci. Davvero, non c’erano risposte.
Gli altri medici, quelli che si congedano con una scusa proprio quando sono necessari, lo capiranno mai?

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