L'ultima carezza - Live Sicilia

L’ultima carezza

La storia del cane Tex (nella foto) e della famiglia che lo ha adottato quando era ancora un cucciolo, fino alla scelta estrema di ricorrere al veterinario per porre fine alle sue sofferenze. Perché “solo chi ha avuto un cane può sapere cosa vuol dire essere amati”.

LE IDEE
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4 min di lettura

Arrivasti a casa nostra un pomeriggio d’ottobre di tanti anni fa portato in una cesta da Francesca, la mamma di Thor. Eri un bellissimo cucciolo con le orecchie già tese ed il mantello nero con le focature brune. Somigliavi al commissario dei telefilm e, siccome Francesca ci disse che ai cani di razza s’impone un nome dalla stessa iniziale di quello paterno, non potemmo chiamarti che Tex.

Cominciasti a gironzolare per il giardino senza destare alcuna gelosia in Isotta, la tua compagna trovatella di cui appresi l’esistenza quando, con una telefonata in ospedale, una vocina di bimba mi chiese di comprare, prima di tornare a casa, un pacco di mangime per cuccioli. Cresceste insieme tutti quanti, i miei quattro cuccioli. Quelli a due e quelli a quattro zampe.

Ricordo il disagio che provai quando ti vidi accoppiare per la prima volta con Isotta perché non capivo che quel rapporto, che a me suonava incestuoso, era solo rispetto di una legge naturale. E quando Isotta se ne andò, cambiasti di colpo carattere. Diventasti più triste e bisognoso di coccole.

Ancora ti rivedo a giocare a nascondino con i tuoi amici a due zampe, a piangere dentro il tuo recinto quando qualcuno dei piccoli invitati alle feste di compleanno mostrava paura nei tuoi confronti. Anche se tu, grande e grosso com’eri, non avresti fatto male a una mosca. Quanti ritorni dopo le vacanze, quando ti lasciavamo in custodia alla nonna e tu ci accoglievi come se non fossimo mai andati via. Un giorno, vedendoti sbattere il muso sulle porte di casa, capii che avevi problemi di visione. “Uveite autoimmune del pastore tedesco” sentenziò il tuo veterinario. Cominciammo a curare i tuoi occhi con i colliri e le pillole. E tu, docilmente, ingoiavi anche quelle più amare. Come se capissi ciò che molti umani non riescono ad accettare: che a un paziente si richiede pazienza.

Ti ricordo la sera in cucina quando ti accucciavi tra il tuo cuscino e la tua copertina preferita con gli occhi ingialliti dalla crema che ti mettevo sulle palpebre. E la mattina successiva ti ritrovavo lì, dove ti avevo lasciato, ad aspettare il biscotto del mio “buongiorno”. E poi cominciasti a zoppicare e a trascinarti in un declino inesorabile che alla fine ti ha reso paraplegico e con il corpo coperto dalle piaghe. “Stenosi del canale vertebrale. E’ una patologia tipica del pastore tedesco” sentenziò ancora il veterinario.

Ti guardavo e piangevo in silenzio pensando all’eugenetica di noi uomini, le più bestie tra le bestie, che nei secoli vi abbiamo selezionato come se l’altezza al garrese o la simmetria delle focature fossero valori più importanti della vostra stessa salute.

Oggi, l’ultima delle nostre e delle tue sofferenze. Ne abbiamo parlato in casa per oltre un mese. In silenzio, con gli sguardi. L’eutanasia è un argomento tabù per noi umani. Con i troppi soloni che pontificano non comprendendo l’enorme differenza che intercorre tra il prolungare la vita e il prolungare la morte. Come se Dio, grande e misericordioso, potesse gradire la sofferenza fine a sé stessa di una sua creatura. Ma tu eri solo un cane e potevamo farlo. Perché pare che il limite da imporre alle sofferenze sia funzione del rango nella scala biologica di chi ne patisce. E così, ti ho accompagnato dal veterinario per l’ultima volta. Ti carezzavo il muso mentre quel farmaco, bianco come il latte che ti versavo nella scodella quando eri cucciolo, scendeva nelle tue vene. E mentre ti volgevi verso me pensavo a quelle parole stampate su una maglietta di Nanni, il papà di Matilde: “Solo chi ha avuto un cane può sapere cosa vuol dire essere amati”. Ed ora che sei in un paradiso dove gli angeli hanno quattro zampe e non ali, potrai correre di nuovo con Isotta. Grazie, amico mio, per tutto l’amore che ci hai regalato. Non potevo sopportare l’idea che la mia ultima carezza fosse quella che ti ho dato sul quel tavolo di metallo mentre il tuo respiro si spegneva. Riposa sereno adesso, anche senza il tuo cuscino e la tua copertina. E stai tranquillo, non li darò a un altro. Tu lo sai bene: un amico vero è per sempre.

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