Morte ai condomini antidroga - Live Sicilia

Morte ai condomini antidroga

Il retroscena
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Volevano compiere una strage. Dovevano morire, arsi vivi, gli occupanti di un intero stabile. Era questo l’intento di un gruppo di stiddari, che il 9 novembre del 2005, per dimostrare la propria forza e per tentare la scalata al vertice all’interno della stidda, si occupava di spaccio di droga, estorsioni e danneggiamenti.

Anziani, bambini e donne, dovevano essere eliminati all’interno della propria abitazione di piazza Trento, in via Cartagine, a ridosso del centro storico di Gela, solo perché avevano manifestato il loro disappunto per il fatto che nella palazzina accanto alla loro veniva svolta attività di spaccio. In un’operazione condotta dalla Dda di Caltanissetta in collaborazione con la questura e il commissariato di Gela, sono finite in galera sette persone: Paolo Di Maggio, 48 anni; Salvatore Di Maggio, 24 anni; Alfio Giuseppe Romano, 27 anni; Daniele Calogero Infurna, 25 anni; Nicola Lipiroti, 23 anni; Gaetano Bacarella, 23 anni; F.F., minorenne all’epoca dei fatti.
I sette sono accusati a vario titolo di strage, associazione per delinquere di tipo mafioso, traffico, detenzione al fine di vendita e cessione di sostanze stupefacenti, detenzione illecita di arma da fuoco e relative munizioni, estorsione in concorso. A morire, dopo che il minore si era occupato di sbarrare la porta di ingresso con una chiave inglese, dovevano essere Angelo Tilaro, la moglie Santa Sanzo, i figli Nunzio e Massimo, Maria Rosa e Rocco Tilaro che alloggiavano al terzo piano, Rosa Noto che alloggiava al secondo, Carmelo Paci e la moglie Saveria Di Noto che abitavano al primo. Dopo che il fumo si era propagato nell’intero stabile, solo la spallata di un condomino, Angelo Tilaro, ha aperto il portone e fatto fuggire i residenti dalla palazzina in fiamme. All’esterno dell’immobile, un’inquietante scritta: “Chi è qui è morto”.

“Casa mia era invasa dal fumo”
“Ricordo che la sera dell’incendio mi svegliai a causa del fumo che aveva invaso il mio appartamento – dice Santa Sanzo, moglie di Angelo Tilaro -. Ho svegliato mio marito e subito entrambi siamo scesi per le scale. Giunti al pianerottolo del piano terra mio marito tentò di aprire il portone, ma lo stesso non si riusciva ad aprire. Anche io aiutai mio marito ed entrambi riuscimmo ad aprire il portone, quindi ci siamo accorti che lo stesso era stato bloccato dall’esterno con una chiave che solitamente si usa per cambiare le ruote delle macchine. Subito dopo aver aperto il portone sia io che mio marito abbiamo aiutato i coniugi Paci a scendere le scale. Nel momento in cui uscimmo dallo stabile non era ancora arrivato nessuno, né i vigili del fuoco, né i carabinieri. Ci siamo accorti che l’appartamento posto al piano terra del nostro stabile stava andando a fuoco”.
“Il fumo – aggiunge Saveria Di Noto, una donna che oggi ha 78 anni – aveva invaso la mia abitazione e il vano delle scale. L’aria era diventata irrespirabile. Voglio precisare che io e mio marito abbiamo difficoltà motorie, sia per l’avanzata età, sia per alcune malattie che ci hanno colpito negli anni. Sono certa che senza l’intervento del signor Angelo Tilaro, che riuscì ad aprire la porta, permettendoci di metterci in salvo, l’incendio per noi poteva essere fatale”. Carmelo Paci ricorda che la notte in cui avvenne l’incendio venne svegliato dalla moglie. “Dopo qualche minuto sono sceso per le scale, aiutato dal mio vicino di casa Angelo Tilaro e mi sono portato fuori dallo stabile. Ricordo inoltre che prima di scendere, la mia abitazione era invasa dal fumo. Ricordo anche che quando sono arrivato nel pianerottolo d’ingresso, Angelo trovò difficoltà ad aprire il portone d’ingresso, e vi riuscì solo dopo avere sollevato il saliscendi dell’anta fissa del portone. A seguito di un infarto, che ho avuto circa sette anni fa, ho notevoli difficoltà motorie”. Angelo Tilaro, svegliato dal fumo e dalle grida degli inquilini, non appena si rese conto della gravità della situazione, una volta scese le scale, ripetutamente tentò di aprire il portone in legno, constatando come lo stesso fosse stato bloccato dall’esterno. Riuscì ad aprirlo solo dopo avere sbloccato i chiavistelli posti in alto ed in basso dello stesso portone, dopo averlo forzato con una violenta spallata.

C’è posta per te
È il 27 maggio del 2005 quando un uomo si presenta nel cantiere di un giovane imprenditore, sulla statale 117 bis. Gli si avvicinava con in mano una scatola. “C’è un paccu pi S.C., si tu?”. L’imprenditore negava, ma lo sconosciuto insisteva. “no, si tu! T’ha pigghiari stu paccu”. All’ennesimo rifiuto il giovane posa il panno con il pacco per terra prima di andare via insieme ad un complice a bordo di una Lancia Y. Quello sconosciuto era Salvatore Di Maggio. All’interno del pacco c’era un mazzolino di fiori e tre cartucce calibro 12. Fu anche una donna a confermare quella visita di Di Maggio, che aggiunse: “Senza fare troppe discussioni è per te, quindi prenditelo, non facciamo chiacchiere”. Nel luglio dello stesso anno il socio dell’imprenditore minacciato incontrò Paolo Di Maggio, padre di Salvatore, che lo salutò con uno sguardo alquanto strano. I titolari, interrogati in commissariato, confermarono la richiesta estorsiva, ma negarono di aver pagato.
Nel dicembre 2003 altra richiesta di denaro al proprietario di un pub del quartiere Caposoprano. Il gestore aveva appena rilevato il locale. “Devi metterti in regola”, gli dissero due uomini (identificati nei Di Maggio). Quando il ristoratore spiegò che era pieno di debiti si mostrarono magnanimi. “Tranquillo, travaglia”, risposero. Si presentarono però l’anno dopo, nel Natale 2004. Di Maggio aveva chiesto un “regalo”. Il titolare del pub gli consegnò 200 euro. L’anno dopo si presentò ancora ma il commerciante riuscì a sottrarsi al pizzo. Ma nel gennaio 2006 si fecero vivi Benedetto Zuppardo e Gaetano Bacarella. “Ho bisogno di soldi per pagare l’affitto della casa di mia madre”, disse Zuppardo, oggi collaboratore di giustizia. La vittima tergiversò, ma poi consegnò 300 euro. Alla polizia ha ammesso di aver consegnato i soldi a Bacarella perché sapeva che i due erano soggetti che potevano danneggiargli il locale.

di Donata Calabrese


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