Travaglio e la vacanza siciliana - Live Sicilia

Travaglio e la vacanza siciliana

?Lezioni? di giornalismo
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Quarta puntata, la risposta non si è fatta attendere. Dalle stesse colonne in cui ieri Giuseppe D’Avanzo riprendeva Travaglio e il suo metodo giornalistico, il giornalista de L’Unità risponde in una lettera al direttore di “Repubblica”. “Io indico la luna, lui guarda il dito”, attacca Travaglio e fornisce i dati del pagamento della vacanza oggetto della critica di D’Avanzo. E fornisce, anche lui, la sua lezione di giornalismo del giorno, sull’effettiva validità del principio de quoque quando di mezzo c’è la vita pubblica. D’Avanzo risponde con sole tre parole: “Ciuro che tacerò”. Ma ricapitoliamo da principio.

È il 10 maggio 2008. Marco Travaglio è ospite di “Che tempo che fa”, programma di Raitre condotto da Fabio Fazio (guarda il video). Presenta il suo ultimo libro e la discussione si sposta sul neoeletto presidente del Senato, il siciliano Renato Schifani. Travaglio parla di lui e di sue presunte “amicizie con i mafiosi”. “Io devo fare il giornalista, io devo raccontarlo – aveva detto in televisione Travaglio – Lo ha raccontato Lirio Abbate, nel libro che ha scritto con Gomez e viene celebrato, giustamente, come un giornalista eroico minacciato dalla mafia. Ora o si ha il coraggio di dire che Lirio Abbate è un mascalzone e un mentitore o hanno il coraggio di prendere nota di quello che scrive e chiedere semplicemente alla seconda carica dello Stato di spiegare i rapporti con quei signori che sono poi stati condannati per mafia”.
È una bufera. Schizza in piedi il mondo politico, di ambo gli schieramenti, Beppe Grillo plaude Travaglio, Fabio Fazio finisce nell’occhio del ciclone in azienda (leggasi Rai) e la notizia è rispresa da tutti i giornali. Anche da “Repubblica”.

Il 14 maggio, Giuseppe D’Avanzo, fondista della testata fondata da Eugenio Scalfari, un po’ a sorpresa, attacca Travaglio, il suo modo di fare giornalismo, le sue “lezioni” e rivela una notizia. Il giornalista de L’Unità avrebbe passato una vacanza in Sicilia con Giuseppe Ciuro (del Ros dei carabinieri, una delle talpe alla procura di Palermo, già condannato a 4 anni e mezzo). Il conto l’avrebbe pagato Michele Aiello. D’Avanzo cita “fonti investigative” panormite che l’avrebbero appreso dall’avvocato difensore di Aiello.

Sembrava finita lì ma Marco Travaglio, il 9 settembre, pubblica sul suo blog (www.voglioscendere.it) un assegno e la ricevuta della carta di credito. Le prove che il suo soggiorno nell’estate del 2002 all’Hotel Artale di Trabia, l’aveva pagato di tasca sua. E scrive: “Bene, sono spiacente di informare lorsignori (una lunga lista: D’Avanzo – ovviamente primo -, Roberto Castelli, Luciano Moggi, Totò Cuffaro, Riccardo Arena, ndr) che, dopo lunghe ricerche, ho finalmente trovato l’assegno e l’estratto conto della carta di credito Diners con cui pagai il conto di quella vacanza”. E chiude il discorso: “So che nessuno mi chiederà scusa per aver messo in circolo quelle menzogne sul mio conto. Ma spero almeno che, in cuor suo, si vergogni”.

Ma non si vergogna affato D’Avanzo che su “Repubblica.it”, il giorno dopo, risponde al collega (che scrive anche nello stesso quotidiano). Attacca: “Travaglio non parla mai di Giuseppe Ciuro, come se la presenza di questo signore fosse marginale. Al contrario, è essenziale. E non per sostenere che l’integrità di Travaglio è compromessa dalle vacanze comuni con un infedele poliziotto poi definito da una sentenza “criminale” e condannato a quattro anni e mezzo di galera”. E “Purtroppo anche la sua difesa, presentata come definitiva, come esaustiva, è alquanto debole, se si deve proprio parlarne”. D’Avanzo, infatti, precisa che il soggiorno in questione è stato ad Altavilla Milicia, sempre in provincia di Palermo, e non a Trabia. E l’anno della vacanza in questione non è il 2002, ma il 2003.

D’Avanzo arriva, dunque, al nocciolo della questione. La “verità”. “Avere incrociato un mafioso – meglio un tipo che soltanto dopo è stato indagato e condannato per mafia – vuol dire davvero essere, sempre e in ogni caso, necessariamente, complice della mafia?”, si chiede il giornalista. In realtà, sostiene, di aver applicato il principio tu quoque: “Atti uguali vanno valutati a uguali parametri. Chiedo: aver trascorso una vacanza con un tipo che poi si è rivelato un criminale, e dunque in piena innocenza e senza alcuna consapevolezza, vuol dire davvero essere per riflesso un criminale?”. E conclude criticando la presunta rigidità di Travaglio per cui “tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altra” e il suo giornalismo non è “fatto soltanto di ‘dati concreti’ e di ‘fatti’. A volte, è costruito con disinvoltura e anche con qualche omissione, come questa sua ultima e infelice replica”.

E un’altra replica arriva, il giorno dopo (12 settembre) sulla pagina dei fondi di “Repubblica”. “Anziché delle strane amicizie del presidente del Senato, continua a occuparsi delle mie vacanze. Io indico la luna, lui parla del dito” scrive Tavaglio riferendosi al collega. “Speravo che fosse finita – continua -, ma (…) dopo aver sempre parlato del 2002 e di Trabia, ora sostiene che ‘quei documenti provano poco’”. Allora: “Sono felice di comunicargli che il mio soggiorno di dieci giorni in un villino del residence Golden Hill ad Altavilla lo saldai con la proprietaria (il cui nome, se vuole, gli fornirò in privato) in data 21 agosto 2003 con un assegno della mia banca, San Paolo-Imi di Torino” e promette di pubblicare anche questa contabilità. E giunge, anche lui, al ‘tu quoque’, il principio, citato da D’Avanzo: atti uguali vanno valutati a uguali parametri”. Ecco – secondo Travaglio – gli atti:
“Io conosco, come decine di cronisti giudiziari, un sottufficiale della Guardia di Finanza che lavora all’antimafia fin dai tempi di Falcone e che mi suggerisce un albergo a Trabia e un residence ad Altavilla. Io ci vado e, ovviamente, pago il conto. Poi il maresciallo viene arrestato e condannato per aver passato notizie riservate a un indagato (Aiello)”.
“L’avvocato Renato Schifani, alla fine degli anni 70, entra nella “Sicula Brokers”in società con l’amministratore dei cugini Salvo (arrestati di lì a poco per mafia da Falcone), con Benny D’Agostino (arrestato e condannato per mafia negli anni 90) e con Nino Mandalà (arrestato e condannato come boss di Villabate sullo scorcio degli anni 90). Non li incontra per il lavoro che fa: ci entra in società, ci fa soldi, affari, lucro. Prima di essere arrestato, Mandalà si sposa e Schifani presenzia al suo matrimonio. Poi diventa consulente urbanistico del comune di Villabate, nominato da una giunta considerata dai magistrati “nelle mani” di Bernardo Provenzano e Nino Mandalà. Poco tempo dopo, il comune di Villabate verrà infatti sciolto due volte per mafia”. “Dimenticavo – aggiunge – io sono un privato cittadino, Schifani, già capogruppo di Forza Italia al Senato, è la seconda carica dello Stato. Qualcuno davvero può pensare che A è uguale B? Qualcuno può davvero sostenere che non si dovessero raccontare, in vari libri e in tv, le frequentazioni del presidente del Senato?”.

La risposta? Molto semplice: “Ciuro che tacerò (g.d.a.)”


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