Il giorno del dolore - Live Sicilia

Il giorno del dolore

Conclusa la cerimonia solenne dei funerali di Stato riservati alle vittime dell'alluvione del primo ottobre scorso. Davanti a 21 delle 28 vittime, seduti in prima fila, le alte cariche dello Stato hanno ascoltato le accorate parole del vescovo di Messina Calogero La Piana. Un messaggio inviato dal pontefice ha aperto la cerimonia

C’è un ragazzo sull’albero nella grande piazza della Cattedrale di Messina. Sta attaccando a un ramo un lenzuolo bianco, con la scritta: “Leo e Cristian sempre nei nostri…”. E c’è un cuore blu disegnato, al posto della parola. Un uomo con la giacca e i capelli candidi si avvicina: “Leva lo striscione”, “Perché?”, “Perché qui non si possono mettere striscioni”, “Ma io?”. “Niente ma – intima l’uomo in giacca – se ti dò un ordine lo devi eseguire!”. Il ragazzo abbracciato all’albero sorride. Il sorriso mesto del dolore, contro gli strilli dell’autorità. Attaccherà il suo lenzuolo a un altro albero. Sarà un altro albero a reggere la memoria di Cristian e Leo Maugeri, fratelli morti nell’alluvione. Li hanno trovati abbracciati.
Gli amici sono qui e ripercorrono l’attesa di una sera. I flash delle tv. I telegiornali che danno resoconti tremendi della sciagura. Le telefonate. Le mancate risposte. La certezza della fine. Qui ci sono tutti, davanti alla Cattedrale. C’è il popolo di Messina. E’ gente silenziosa, partecipe, con un volto che non dice menzogne e racconta due stati d’animo. Racconta il lutto di chi ha perso un amico, un fratello, una madre, un padre, un concittadino. La rabbia di chi – a ragione – si è sentito preso a calci da un cordoglio pubblico labile e ipocrita, dalle strumentalizzazioni, dal vento gelido dell’Italia Lumbard che ha snobbato la tragedia del Sud. E’ un grande funerale. Ma è anche un funerale come gli altri. Si galleggia a vista tra l’abisso e la normalità. Gli aggettivi dello strazio si mescolano ai nomi di tutti i giorni, alle narrazioni del quotidiano. La Gazzetta del Sud, il giornale principe di qui, presenta una copertina in stile Spoon River. Le foto dei morti sono stampate, riposano in pace nell’inchiostro. Li ricorderemo così, nell’ultimo scatto. Ricorderemo gli occhiali di Simone Pasquale Neri che ha salvato otto persone e ha salutato la sua fidanzata con un sms, prima di essere travolto. Ricorderemo il viso indecifrabile di Monica Balascuta, uccisa dal fango con l’anziana che ha protetto fino all’estremo. Ricorderemo i riccioli di Ilaria e la felicità di Cristian e Leo Maugeri, fermi in un abbraccio che non presagiva lo strappo, il taglio precoce dalla vita. La gente in piazza sfoglia il giornale. Accarezza la superficie cartacea dei lineamenti con delicatezza. Fioriscono storie. “La vedi questa? Era alla comunione di Salvuccio. Mischina…”. “Questo è Simone, ieri la sua fidanzata in chiesa piangeva, nessuno poteva consolarla”. Le cronache lambiscono un’esile e involontaria leggerezza che sempre accompagna il peso di una catastrofe. “Mio cognato – dice una signora alla vicina – era da quelle parti con sua moglie per farle fare la ceretta. Sono tornati prima, altrimenti…”. E non sai quanto davvero devi ringraziare la celerità dell’estetista e la rapidità della ceretta. Le autorità e i parenti sono dentro. La gente è fuori. I volontari della protezione civile compiono sforzi titanici per assicurare a tutti una bottiglia d’acqua. C’è collaborazione. Le bottigliette passano di mano in mano. Le vedi danzare sopra la testa dei presenti, con la plastica che luccica al sole. Una signora stanca viene portata a braccio oltre le transenne. I bambini si perdono tra abbracci di mani note o sconosciute. Nella folla, ci sorridiamo tutti. E’ la Sicilia migliore, è l’Italia migliore, quella che sa stringersi in una morsa di solidarietà, quando capisce che non se ne può fare a meno. Comincia la messa. Una piccola scout con la coda di cavallo fa su e giù con le sue bottigliette del sollievo. Le chiedi il nome, vorresti ringraziarla per l’abnegazione. Lei risponde: “Non scriva di me. Dica che qui ci sono gli scout di Milazzo. Siamo tutti impegnati”. Una bambina scoppia a piangere, sconvolta dalla folla. Un vecchio con la barba bianca la consola e la riconsegna alla madre. Gli applausi punteggiano l’elenco di morti e dispersi. La lista dei nomi non cessa mai. Ti accorgi di quanto sia lunga e disperata dal tempo che passa, dai secondi che gocciolano come il sudore sulla fronte. Ora non ci sono più le singole persone. Non c’è più la gente. C’è il popolo di Messina che si riconosce nelle parole dell’arcivescovo. Niente strumentalizzazioni, niente accuse campate in aria. E quando il prelato invoca sicurezza, la piazza esplode in un applauso che non termina più. E’ il culmine della rappresentazione plastica e drammatica del lutto. E’ il momento di unione più alto. Altri battimani piovono scroscianti, quando le bare escono dall’immenso sudario che le ha velate. Uno si chiede: “Ma dove li seppelliranno se nei loro paesi non c’è più nemmeno il cimitero?”. Un rumeno piange per la badante sepolta con la “nonnina adorata”. Il padre nostro in rumeno sembra una magia lontana, una formula per la resurrezione dei defunti. Le bare escono, una ad una, sotto il sole di una mattina che qui nessuno dimenticherà mai. Cala il silenzio, cala il sipario sulla pioggia di Giampilieri e sulla luce della memoria dolente. I morti vanno via. Non sapremo mai il colore della loro faccia, la smorfia che hanno opposto, il braccio teso che avranno alzato per difendersi, quando il fango li ha travolti. Le foto non dicono nulla a riguardo. Li vedremo raccolti in una Spoon River da prima pagina. E Simone Neri sarà per tutti il paio d’occhi nascosto dagli occhiali scuri. Sarà per sempre l’sms che ha spedito alla fidanzata, un attimo prima di andarsene: “Qualunque cosa accada, sappi che ti amo”.

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