I nuovi capi - Live Sicilia

I nuovi capi

Con la nuova legge non lo avresti letto
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16 min di lettura

L’effetto somiglia a quello delle mareggiate. C’è la retata, le strade si svuotano per qualche mese. Poi, un po’ alla volta, ogni cosa torna al suo posto. I picciotti ricominciano a chiedere il pizzo (spesso anche con gli arretrati), i capi (magari solo vice fino al giorno prima) prendono in mano le redini della famiglia e tirano su la saracinesca. Perché si può fermare tutto: possono chiudere industrie e imprese storiche, può dichiarare bancarotta anche l’azienda più solida, ma non Cosa nostra spa. Troppi interessi, troppe bocche da sfamare. Senza dimenticare i contributi destinati alle famiglie dei carcerati (sempre più numerosi), le parcelle degli avvocati (sempre più care), le trasferte per i colloqui… No, non si può fermare tutto questo. E lo sanno in Procura come alla Squadra mobile, dove nonostante i successi degli ultimi mesi si continua a lavorare di gran lena per cercare di bloccare sul nascere ogni tentativo di riorganizzazione.

Oggi come ieri i boss palermitani sono al lavoro per ricostruire famiglie e mandamenti. Gli investigatori registrano fibrillazioni, tensioni. In alcuni casi anche progetti di omicidi. Non c’è tempo per leccarsi le ferite e piangersi addosso. Bisogna contarsi e contare gli uomini disponibili. Ma se da un lato è facile reclutare soldati e serrare le fila degli eserciti – del resto sono centinaia i rapinatori e gli spacciatori che scalpitano per un posto nell’onorata famiglia – lo stesso non si può dire per la scelta dei capi. Per quelle figure che dovrebbero prendere il posto di pezzi da novanta come Nino Rotolo, Nino Cinà e Franco Bonura (la triade che cercava di estendere il proprio potere su tutta la città), Salvatore Lo Piccolo (il boss che da solo avrebbe voluto regnare su tutta la provincia), e a scendere fino a piccoli (si fa per dire) capifamiglia come Andrea Adamo (reggente di Brancaccio subito dopo l’arresto di Giuseppe Savoca), Pietro Tumminia (che proprio Rotolo mise a capo di Altarello al posto di Rosario Inzerillo), Gaspare Pulizzi (diventato reggente a Carini dopo l’arresto di Nino Di Maggio e Vincenzo Pipitone), Filippo Annatelli (Corso Calatafimi), Pietro Badagliacca (Rocca Mezzo Monreale), Vincenzo Brusca e Calogero Caruso (che si sono alternati al vertice della famiglia di Torretta), Giuseppe Cappello (Borgo Molara), Salvatore Davì (Partanna Mondello), Vincenzo Di Maio (Acquasanta), Pietro Di Napoli (Noce), Salvatore Gioeli (Porta Nuova), Vincenzo e Giovanni Marcianò (Boccadifalco), Michele Oliveri (Pagliarelli), Salvatore Pispicia (Palermo Centro), Gaetano Sansone (Uditore). Oggi il principale pensiero, all’interno di Cosa nostra, è proprio questo: rimpiazzare tutti i capi, sottocapi e soldati arrestati negli ultimi due anni.

L’ultima radiografia sul territorio
Alla Direzione distrettuale antimafia parlano di una situazione “complessa”, “in continua evoluzione”. A Bagheria come a Partinico, al Borgo Vecchio come alla Noce o a Boccadifalco. Ma non tutte le realtà sono uguali. Perché se è vero che le operazioni degli ultimi anni (e in particolare “Grande Mandamento”, “Gotha” e tutte le retate legate al clan di Salvatore e Sandro Lo Piccolo) hanno disarticolato l’organizzazione, è anche vero che intanto numerosi boss e capifamiglia storici sono tornati in libertà dopo avere scontato qualche anno di carcere. Ed è altrettanto vero, come sottolineano soprattutto in Procura, che le falle registrate nel “41 bis” – il cosiddetto carcere duro che doveva servire a tagliare ogni contatto tra i capimafia e il mondo esterno – negli ultimi tempi sono diventate voragini. E quindi qualcuno riesce a dettare ordini anche da dietro le sbarre.

La situazione in questo momento è estremamente confusa e frammentata. Gli unici punti di riferimento storici rimasti sul territorio sono Mimmo Raccuglia e Matteo Messina Denaro, che ormai ha esteso il suo potere anche a Partinico e alla parte occidentale della provincia. Accanto a loro, numerosi padrini si stanno facendo largo per colmare i vuoti di potere. I riflettori sono puntati soprattutto su Pino Scaduto a Bagheria, Massimo Mulè a Ballarò, Fabio Chianchiano allo Zen, Giuseppe Lo Verde e qualche superstite della famiglia Liga a San Lorenzo. Si tratta in gran parte di vecchi boss, prime e seconde file rimaste in stand by per alcuni anni e adesso, davanti alla necessità di serrare le fila, chiamati a riorganizzare famiglie e mandamenti. Tuttavia – stando a quello che emerge dalle indagini – nessuno, nemmeno Messina Denaro o Raccuglia, ad oggi, sembra in grado di prendere il posto di figure carismatiche come Totò Riina e Bernardo Provenzano. “Non ci sono più le condizioni per gestire un potere così grande e pensare di farla franca. Tutt’al più – spiegano dalla Direzione distrettuale antimafia – in questo momento si può parlare di una riorganizzazione che parte dal basso, dalle famiglie. Con tanti piccoli capi che intanto provano a rimettere in piedi i clan e poi, collegialmente, cercano di individuare un direttivo che possa decidere per tutti”.

Tuttavia, per rendere più semplice la lettura, bisogna cominciare col dividere il territorio di Palermo in quattro: Pagliarelli (il mandamento di Nino Rotolo), San Lorenzo (il regno di Salvatore Lo Piccolo), Altofonte (la roccaforte del superlatitante Mimmo Raccuglia) e Bagheria (che oltre a Villabate e alle cittadine dell’hinterland comprende anche Brancaccio e la periferia est di Palermo).

“L’unica forza di Nicchi è la vicinanza a Rotolo
La prima parte, quella centrale, quella che dal Borgo Vecchio arriva fino a Porta Nuova passando per la Noce, è forse l’area in cui si registrano i movimenti più interessanti. Lì, malgrado le retate (e malgrado un tentativo di invasione di Salvatore Lo Piccolo, in parte riuscito) è ancora forte l’influenza di Nino Rotolo, che può contare su una serie di uomini a lui fedelissimi. Tra questi, un posto di tutto rispetto lo merita sicuramente Gianni Nicchi che, nonostante l’età – e benché non abbia lo spessore e il pedigree criminale degli altri capi – rappresenta pur sempre la longa manus del boss di Pagliarelli. Al giovane rampollo di Cosa nostra, che in questo periodo secondo fonti investigative dovrebbe trovarsi a Palermo, è stata affidata anche la cassa della famiglia, che in qualche modo rappresenta lo scettro del potere. Tuttavia in molti, all’interno di Cosa nostra, ritengono Nicchi poco affidabile non solo per l’età, ma soprattutto per la sua dipendenza dalla cocaina. Per questo, pare che al suo fianco sia stato messo una sorta di “tutore”, del quale non si conosce il nome, che lo aiuta nella reggenza del mandamento. Magari in attesa di un nuovo capo carismatico o (perché no?) della revoca del 41 bis a Rotolo.

Quando si parla della parte centrale non si possono trascurare le dinamiche in corso al Borgo e anche a Ballarò. Nel primo caso, assieme a Franco Russo e Michele Siragusa, negli ultimi tempi era tornato in azione anche Maurizio Spataro. I tre sono stati arrestati tutti di recente, i primi due a giugno, l’altro poche settimane fa. Ma la storia di Spataro, quarantenne residente in via Giuseppe La Masa, è forse la più interessante e al tempo stesso controversa. Di lui si parla infatti in diverse conversazioni intercettate nel box di Nino Rotolo e in numerose inchieste legate a storie di pizzo. Ma non solo: dietro al nome di Spataro c’è pure una storia dai contorni tutt’altro che chiari, una parentesi di pochi mesi in cui il picciotto tutto casa e pizzo avrebbe anche cominciato a collaborare con i servizi segreti, cercando di farsi inserire nelle liste dei confidenti stipendiati dal Sisde. Dopo avere affiancato per anni Giovanni Bonanno (condannato a morte dal tribunale di Cosa nostra e seppellito nelle campagne di Villagrazia di Carini perché faceva la cresta al pizzo) nella raccolta delle estorsioni, verso la fine del 2006 Spataro decise di fermarsi, di prendere un periodo di “aspettativa” da Cosa nostra. Probabilmente, e non a torto, aveva fiutato puzza di guai. E infatti, è il 4 agosto 2005 quando gli investigatori registrano una conversazione tra Nino Rotolo e Nino Cinà che lascia pochi spazi a dubbi: “(…) Senti – dice Cinà – riguardo a quel picciutteddu cornuto che cammina con Giovanni Bonanno, si chiama Spataro? (…) hanno detto che gli vogliono rompere le corna, io gliel’ho detto sì, perché non ci vai a rompere tutte le corna a …inc… perché? Questo disturba una signora sposata è la moglie di un (…)”. In questa fase, Spataro fu affiancato dai servizi segreti, che lo avrebbero invitato a diventare confidente. In una sorta di ingorgo istituzionale carabinieri e polizia registrarono i primi contatti e forse qualcosa in più. Ma alla fine fu posato anche dal Sisde. E dopo qualche mese tornò in attività. Con le estorsioni.

Lo Piccolo, l’uomo che regnò solo sei mesi
Il giorno che Nuccio Incognito, l’allora capo della Catturandi, gli mise le manette ai polsi, Salvatore Lo Piccolo non aveva ancora brindato ai primi sei mesi dalla sua auto investitura a capo di Cosa nostra. Quel giorno, era il 5 novembre 2007, in un colpo solo la polizia mise le mani sui capi del mandamento e su altri due boss del calibro di Andrea Adamo e Gaspare Pulizzi. La pratica poteva tranquillamente essere chiusa lì, con quei quattro arresti. Che, per quanto pesanti, non avrebbero impedito ai picciotti (come poi è successo) di riorganizzarsi. Ma il barone, l’uomo che studiava da capo dei capi, aveva commesso più di una leggerezza: intanto, per la sua smania di conservare tutto, si fece trovare con centinaia di pizzini e documenti. Poi, per la necessità di costituire un esercito, affidò potere e segreti a uomini (vedi Franzese, Pulizzi, Nuccio e Bonaccorso) che lo avrebbero tradito di lì a breve. Un altro errore, secondo gli investigatori, è legato alla sua gestione del potere. Una gestione avida (i pentiti lo definiscono come un uomo “molto tirchio”, mentre con Provenzano, ad esempio, alla fine “mangiavano tutti”) e violenta. E qui arriviamo al capitolo legato all’ultimo, importante fatto di sangue che si è consumato in città.

La morte di Nicolò Ingarao, in un modo o nell’altro, doveva segnare infatti un punto di svolta nell’assetto di Cosa nostra a Palermo. Con questo delitto eccellente – eliminare un boss e un uomo molto vicino a Nino Rotolo non è una decisione che si prende così, su due piedi – Salvatore Lo Piccolo voleva affermare il suo potere assoluto sulla città. Stabilire chi comanda, una volta per tutte, e trascinare anche i capifamiglia più reticenti sotto la sua ala. La morte di Ingarao, assieme a quella (solo progettata) di Gianni Nicchi, avrebbero potuto segnare l’inizio di una nuova guerra di mafia. Del resto la violenza usata dal barone, come confermano i pentiti, alla fine era solo un segno di debolezza davanti allo strapotere di Rotolo. Con la forza Lo Piccolo voleva imporre decisioni che il boss di Pagliarelli era riuscito a far passare con l’astuzia.

Totuccio era avido e impaziente. Voleva tutto e subito. Rotolo – e lo si evince dalle centinaia di intercettazioni – da buon siciliano si metteva invece al palo ed aspettava: “calati juncu ca passa la china”. E anche Ingarao – è emerso nel corso delle indagini – a quanto pare si era detto disposto a farsi da parte. Magari aspettando tempi migliori. Ma alla fine hanno prevalso l’avidità e la violenza.

Oggi, dopo tre retate e una cinquantina di arresti, il mandato di ricostruire famiglia e mandamento è stato affidato a una serie di boss tornati in libertà dopo anni al fresco e ad altri uomini d’onore sfuggiti alle ultime operazioni antimafia. Da tempo gli investigatori seguono i movimenti di una serie di persone particolarmente attive nella zona. Gente rimasta in panchina anche per alcuni anni ma richiamata in servizio per rimpiazzare gli assenti. Un paio di nomi sui quali da qualche mese sono accesi i riflettori sono quelli di Pinuzzo Lo Verde a San Lorenzo e di Fabio Chianchiano, che assieme a Carmelo Militano (attualmente in carcere) è un punto di riferimento stabile per le estorsioni allo Zen. Perché nonostante tutto, nonostante le retate e l’attenzione delle forze dell’ordine, allo Zen continuano a pagare tutti.

Nella tana di Mimmo Raccuglia
E poi c’è la provincia. La parte occidentale, quella che include Altofonte, Monreale, San Giuseppe Jato e Partinico. Quella in cui è ancora forte l’influenza dei superlatitanti Domenico Raccuglia (in gran parte del territorio) e Matteo Messina Denaro, i cui affari di tanto in tanto superano i confini di Trapani. In questo caso l’assenza di boss in campo ha scatenato una serie di frizioni all’interno delle cosche. Con giovani picciotti, terze e quarte linee, che scalpitano per prendere i posti dei capi. Se Cosa nostra in città è allo sbando a Partinico, dopo l’arresto dei Vitale, si è creata una situazione da far west. La guerra endemica tra fazioni opposte negli ultimi anni ha fatto registrare un aumento vertiginoso dei delitti. Alcuni di questi fatti di sangue sono legati anche all’azione di Salvatore Lo Piccolo che, considerata la sua influenza a Carini e Terrasini, aveva pensato di sconfinare ed estendere il suo potere fino a Partinico. Il risultato? Almeno mezza dozzina di morti sul campo.

Adesso, secondo gli investigatori, lo stato di calma apparente è legato a un equilibrio abbastanza precario in cui Raccuglia e Messina Denaro curano i propri interessi senza pestare troppo i piedi agli uomini di Vitale. Che, nonostante gli arresti, sono ancora molto forti sul territorio. Mimmo “il Veterinario”, in particolare, è interessato principalmente alla zona di Monreale, Altofonte e San Giuseppe Jato. Paesi in cui in questo momento dovrebbe trovarsi in “villeggiatura” con moglie e figli. Anche se qualcuno lo individua come una delle ultime figure carismatiche in grado di governare la riorganizzazione di tutti i mandamenti, secondo gli investigatori il principale obiettivo di Raccuglia resta quello di garantirsi la latitanza. “E i fatti – spiegano dalla Procura – ci hanno dimostrato che, come nel caso di Lo Piccolo, quando cominci ad operare da capo sei costretto, per forze di cose, a intrattenere una serie di rapporti, a convocare centinaia di riunioni…”. E, come si dice a Palermo, “cu mancia fa muddichi…”.

Il feudo tanto caro a Provenzano
Dici Bagheria e pensi subito alla clinica Aiello, al ponte tra la provincia e New York, al centro commerciale di Villabate, ai fiumi di droga da e per Brancaccio. Dici Bagheria e pensi a Provenzano. Sì, proprio a lui, al capo dei capi. Perché è lì che Binu ha trascorso una parte importante della sua latitanza. È lì che ha scelto gli uomini che dovevano accompagnarlo a Marsiglia quando fu operato alla prostata. È lì che ha deciso di avviare il processo che avrebbe dovuto portare Cosa nostra dalle campagne ai grandi business. Oggi Bagheria è anche il territorio in cui si registrano le tensioni più preoccupanti. Per via degli interessi, sterminati, ma anche per il numero di boss in circolazione: troppi per pochi posti. Da mesi gli investigatori tengono sotto controllo tutta la zona e grazie a una serie di intercettazioni ai primi di luglio hanno sventato un omicidio arrestando quattro presunti killer.

Per capire però cosa c’è dietro a questa faida, bisogna chiamare in causa ancora una volta Salvatore Lo Piccolo. Perché il barone durante la sua scalata non aveva lasciato nulla al caso. E siccome anche lui aveva intuito l’importanza strategica di quel territorio, attraverso una serie di alleanze aveva avviato il processo di annessione. Come trait-d’union tra Bagheria e San Lorenzo aveva scelto il boss di Brancaccio Andrea Adamo, che doveva diventare la testa di ponte per quel progetto di espansione che, di lì a poco, avrebbe dovuto portare Lo Piccolo a regnare su tutta la provincia. Oggi, ma a fronti invertiti, lo stesso progetto pare stia partendo proprio da Bagheria, dove i boss accarezzano l’idea di espandere il loro potere fino a San Lorenzo. È ovvio, però, che un disegno tanto ambizioso stimola gli appetiti di molti capi.

Potrebbe essere questa la chiave di lettura del piano, scoperto dalla Squadra mobile, di eliminare Pietro Lo Iacono, storico reggente della famiglia di Bagheria e fedelissimo del boss Bernardo Provenzano tornato in libertà l’anno scorso. Questa volta a salvare il boss è stata la polizia. Che dopo avere “sentito” le intenzioni del gruppo di fuoco ha fatto immediatamente scattare il blitz fermando quattro presunti mafiosi. Per la sua esecuzione i killer avevano già scelto il luogo (un lido di Santa Flavia che frequenta ogni mattina assieme alla moglie) e anche il giorno: sabato 5 luglio. Secondo la polizia, che è stata coordinata nell’operazione dai pm della Dda Nino Di Matteo e Marzia Sabella, dietro a questo piano di morte c’erano Michele Modica, 53 anni, di Casteldaccia, Andrea Fortunato Carbone, 43 anni, anche lui di Casteldaccia, Emanuele Cecala, 31 anni, di Caccamo e Gaetano Fiorista, 32 anni di Palermo. Quasi tutti pregiudicati per mafia e quasi tutti, stando alle poche informazioni che emergono dalle indagini, particolarmente attivi nel campo delle estorsioni. I quattro sono stati fermati nella tarda serata di giovedì 3 luglio. Da giorni, pur sentendo il fiato degli investigatori sul collo pedinavano la loro vittima designata, ne studiavano le abitudini e i movimenti. A far scattare il fermo, poi convalidato dal gip, sono state alcune frasi intercettate e il fatto che, come ripetevano più volte fra loro, “occorreva realizzare, subito e comunque, il delitto”; lasciando intendere, come hanno annotato i magistrati nel provvedimento di fermo, “che l’ordine proveniva da più vertici di più famiglie mafiose”.

Il progetto del delitto secondo gli inquirenti testimonierebbe le fibrillazioni interne ai clan del Palermitano dopo l’arresto dei grandi capi. Anche se in provincia le operazioni di polizia e carabinieri hanno decimato le famiglie e i mandamenti di Villabate, Bagheria, Caccamo, San Mauro Castelverde, Partinico, San Giuseppe Jato e Corleone, proprio a Bagheria l’anno scorso erano tornati liberi Pietro Lo Iacono e Nicola Greco, fratello di Leonardo. E in una città in cui tutti sono sempre stati contro tutti, due boss scarcerati in un colpo solo avevano mandato in tilt il sistema.

Dalle indagini, cominciate un paio di mesi fa, sarebbero emersi numerosi indizi che proverebbero che i fermati erano anche in possesso di armi. Insomma, scalpitavano. E probabilmente, visti gli “stretti contatti” con personaggi legati alla ’Ndrangheta ed alla criminalità organizzata canadese, volevano pure mettere in piedi un traffico di droga tra Sicilia, Calabria e Nord America, un po’ come avevano tentato di fare Gianni Nicchi, Nicola Mandalà e Frank Calì prima di essere coinvolti nell’operazione “Old Bridge”. Del resto Michele Modica, figlio di Gaetano, condannato per traffico di droga negli Usa, non è assolutamente un “novizio”: nel 2004 scampò a un attentato insieme a Andrea Fortunato Carbone, in un locale di Toronto.

Sempre in tema di sovraffollamento, c’è da registrare pure il fatto che a Bagheria, da qualche tempo, sarebbe tornato in attività Pino Scaduto, un pezzo da novanta in grado, secondo gli investigatori, di prendere da solo in mano le redini del mandamento. Difficile, al momento, stabilire se c’è la sua firma nel progetto di uccidere Pietro Lo Iacono. Ma è altrettanto difficile pensare che lui non ne sapesse niente.


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