La fine di un amore - Live Sicilia

La fine di un amore

L'addio tra Lombardo e Miccichè
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Stavolta è finita, o almeno sembra. Rimane solo questo ardito fotomontaggio (guarda all’interno), un frammento dei tempi felici.
Stavolta, sì, è finita. Ci vorrebbe la voce da rianimazione di un Aznavour per raccontare l’infrangersi di muscoli cardiaci. Ci vorrebbe un gorgheggio: “Come è triste il governo, è stata una magnifica giunta…”. Aznavour ci vorrebbe, o forse basterebbe Apicella.

Gianfranco Miccichè e Raffaele Lombardo si restituiscono la promessa di matrimonio politico. Addio al Partito del Sud. Addio alla tenerezza dei rapporti umani, perchè tra un po’ Gianfry – statene certi – comincerà e menare mazzate orbe sul suo blog. Addio alla reciproca solidarietà, quando Miccichè difendeva Raf da coloro che lo chiamavano con perfidia “Arraffaele”, quando Raf carezzava (metaforicamente) i riccioli del suo amico ribelle, con comunicati stampa zuccherosi e stilnovisti fino allo sfinimento. Adieu.

Insieme, hanno governato, sorreggendosi lungo una parte scoscesa del cammino. Poi che è successo? Corna e bicorna ci furono. Mai Raf Lombardo, in coscienza, avrebbe tradito il suo Gianfry per un altro essere umano, ma per il potere hai voglia. Mica è tradimento, è riformismo. Il presidente è fatto così, davanti all’alito di una futura sopravvivenza nella stanza del comando lui non ci vede più. Raffaele Lombardo lo sa: dovesse lasciare oggi la carica e i galloni che cosa gli resterebbe se non l’oblio e un giudizio storico controverso?

Invece, questo re vuole regnare e vedremo i tecnici di alto profilo che proporrà alla Sicilia. Bisogna far presto. Gli intrighi di Palazzo sono un gioco affascinante, tuttavia presuppongono appunto un palazzo e un popolo. Il primo ha resistito a tutte le rivoluzioni d’ottobre. Il secondo boccheggia e chiede pane. Visto dal palazzo col cannocchiale, il popolo è un dettaglio. Da vicino rischia di diventare maledettamente importante. E non siamo sicuri che il popolo del Pd – ammesso che esista ancora – sia felice dei valzer ballati, al suono dell’organetto lombardiano, dal suo gruppo dirigente.

Nella sua logica da cubo di Rubik,  Raffaele è stato costretto ad abbandonare Miccichè – come ha preventivato Francesco Cascio – e a mettersi con Giuseppe Lupo, che è uomo pio. Nel frattempo, è d’uopo amoreggiare con Cracolici che è il rivale di Lupo nel cuore di presidente. Occhiate fiammeggianti, strapuntini, meravigliosi posti assessoriali in dono di nozze… Il fatto è che Lombardo seduce, però non sposa. Regala anelli di fidanzamento e si scorda di fissare la chiesa per le nozze. Il moto perpetuo è la sua cifra: oggi lì, domani qui, dopodomani chissà.

In cotanto volteggiar, mica siamo proprio sicuri che sia finita anche se è molto probabile. Perciò verghiamo un epitaffio provvisorio: “Gianfranco e Lombardo si amarono colti dal dardo di Cupido. Poi Cupido si fece cupo e venne il tempo di Peppino Lupo”. Sì, come rima fa schifo. Sempre meglio di Apicella, o di un Aznavour di seconda mano: “Com’è triste la giunta…”.

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