Perché tanta paura della morte di Norman? Perché ridurre il suo grido al mutismo? Alcuni usano la solita frase: davanti al dolore, silenzio e rispetto. Chiudiamo le porte, oscuriamo le tendine. La morale nota è il sudario di troppe vite spezzate. Una frase tremenda la condensa: non ci sono parole.
Non lo capite che questa è la nostra sconfitta? Le parole ci sono. Non vincono, forse consolano, forse non spiegano. Però ci sono e devono essere pronunciate, urlate se è il caso. Miriam Di Peri ha compiuto un viaggio col taccuino aperto da cronista nella facoltà di Lettere, accanto alla terrazza da cui Norman ha spiccato il suo ultimo e sciagurato volo. Bocche semi-cucite. E scarna introspezione sincera. E miope visione d’insieme. E poche parole. Che significa: “Dovemmo metterci tutti la pietra al collo”?. Tutti non esistono, non sulla stessa frequenza d’onda. Non basta una risacca, una sola, di disperazione per increspare il mare?
Cari ragazzi di Lettere, di Filosofia e dei dintorni, se nemmeno voi sapete trovare le parole giuste, che ne sarà del resto? La nostra speranza è che ci sia un luogo del mondo in cui le parole abbiano ancora un senso e possano venire insegnate, tramandate. Parlare significa comunicare, rendere meno straniero il dolore. Se qualcuno si uccide, alle volte, è perchè ha smarrito un linguaggio, perché non riesce a tradurre quello degli altri. Accade che la brava gente, di ottima coscienza, ti isoli, semplifichi. Non ci sono parole. Non c’è salvezza. C’è la morte del significato e poi del corpo.
Certo, chi scrive è appena un cronista e non conoscevamo Norman. Non potremmo giurare circa le cause della sua dipartita. Non possiamo giurare su niente. La cronaca è sempre la narrazione del verosimile, con quel tanto di cuore e testa lanciati oltre il buio per tentare di colmare i buchi. Mestiere bellissimo e atroce il nostro. Lavoro di parole oneste, che talvolta sbagliano e tuttavia sanno rimanere immacolate, se c’è immedesimazione, se quello che si scrive e che si ascolta è un ponte verso un’altra vita.
Noi quel ponte, a torto o a ragione, l’abbiamo lanciato verso il corpo di Norman, verso l’atto d’accusa di un padre disperato, verso un’ipotesi probabile, verso un diario. Abbiamo sbagliato? Crediamo di no. Quel ponte è approdato comunque nel dolore di una persona che diventa la tragedia sociale di una generazione. Cucendo e tagliando, di verosimiglianza in verosimiglianza, siamo arrivati all’anima di qualcosa che ci spaventa. Anzi, ci atterrisce.
Ma ci sgomenta di più la freddezza del silenzio, come se il silenzio fosse compassione, nella sua negazione di un urlo che c’è. Noi quel grido vogliamo portarlo con noi. Perché uno non può fare il lavoro delle parole, se non è anche una persona, se non ama le persone.
…e allora vada avanti. Faccia un’inchiesta giornalistica su quello che avviene nelle Università, sulle prospettive che hanno i ragazzi in quel posto, se non di essere posteggiati a bruciare i loro anni migliori. Faccia un’inchiesta sul perchè in Sicilia un giovane muore ogni giorno guardandosi avanti, e altrove ha le opportunità che qui vengono negate. Ci racconti meno dei valzer politici e più della vita. Ci dica perchè siamo condannati a essere fantasmi. Lo faccia per paura, o per lavoro, o per rispetto a Norman e a tutti quelli come lui che verranno. Il mestiere di giornalista è una splendida opportunità.
E lei che farà, nel frattempo? Qual è la sua opportunità?
La mia opportunità è scegliere. E nel frattempo scelgo di continuare a leggerla.
Le difficoltà spesso sono date da una costellazione di cose tipo la propria situazione di necessità, i propri aspetti caratteriali (ovvero la capacità di resistere alle frustrazioni e alle mediazioni tra la vita e i propri desideri) la propria storia familiare e la realtà. Forse (ribadisco forse) Norman se trovava il lavoro che desiderava non si suicidava, ma se per caso un giorno lo lasciava la ragazza, la moglie (sto facendo altri esempi di dramma umano) come poteva reagire a quella forma di dolore? Questo non potremo mai saperlo. I tentativi disperati del padre di questo ragazzo che va da quelli di AN come racconta nelle interviste sono i tentativi di tutti i padri più o meno “potenti” della nostra regione. Sarebbe bello creare una sorta di sciopero dei giovani, occupare le piazze, protestare per la modalità in cui vengono gestiti i soldi soprattutto quelli destinati ai corsi di formazione promossi dall’assessorato al lavoro (ve lo posso assicurare, è così). Ragazzi, è arrivato veramente il momento di unirci, attivare un pensiero, un progetto di cambiamento mosso da un Ideale vero non politicizzato. Nostro, punto e basta. Roberto, scrivi sempre benissimo, ti ricordo con affetto al GDS (non faccio più la giornalista!) M.
Saluti affettuosi.
Oggi pomeriggio c’ero davanti la Facoltà, per ricordare Norman. Come altri non lo conoscevo, ma mi sono sentito in dovere di esserci, perché se n’era andato un “pezzo” della mia stessa comunità studentesca, un collega, “uno di noi”.
Le parole ci sono, è vero, nonostante anch’io prima abbia pensato il contrario, ma è difficile tirarle fuori. Mi auguro che il gesto di Norman risvegli in noi giovani la forza di lottare per il nostro futuro, di costruirlo insieme unendo le mani ed imparando ad ascoltarci, abbattendo i pregiudizi e le storie già scritte dei favori e delle raccomandazioni a cui ci hanno abituato i nostri padri. Ma come si fa? Occorre pazienza, occorre educarci ed educare chi viene dopo di noi e personalmente, al momento, non ho voglia di restare. Sono stanco e ho bisogno di andare via, anche perché il corso di laurea magistrale che ho scelto per continuare a sognare un lavoro senza raccomandazioni qui a Palermo non esiste, non c’è proprio. Spero, tuttavia, di tornare un giorno più carico e potermi di nuovo impegnare per il bene comune, per provare a dare il mio piccolo contributo per il risveglio di questa nostra bella terra di contraddizioni e compromessi.
Gabriele