Livatino e la memoria scolorita - Live Sicilia

Livatino e la memoria scolorita

Vent’anni fa, il 21 settembre,  Rosario andava via per sempre. Lo faceva in punta di piedi, così come aveva scelto di vivere i suoi trentotto anni. In punta di piedi aveva percorso i corridoi di una procura, che lo aveva visto giudice troppo in fretta, secondo alcuni. In punta di piedi aveva scelto di essere servitore dello Stato, senza scorciatoie, nè facili presenzialismi. Sottovoce aveva perorato le cause dei giusti,  scrivendo a stampatello il desiderio che la sua terra, la sua Agrigento si convertisse al bene. E in mezzo alla guerra di mafia – tra Stidda e Cosa nostra, che sterminavano senza perdono, un giorno sì e l’altro pure, ogni circondario agrigentino – Rosario se n’è andato via da solo. Senza la scorta, senza i vetri antiproiettile o le chiusure di sicurezza. Ha visto i suoi sicari, ha cercato di fuggire, consapevole che non ce l’avrebbe fatta. Poi è diventato anima impalpabile, tenendo fede a quella sua natura discreta, per nulla parolaia, concisa negli sguardi, nelle parole, nelle decisioni. Poi sono passati i giorni, i mesi, gli anni e per quel giudice, che per tutti è diventato “il ragazzino” – un epiteto che gli pesava peggio di una roccia sopra il collo – oggi si la memoria compie vent’anni. Come in tutti gli anniversari che finiscono per zero, ci si aspetta sempre qualche cosa di maestoso, che stupisca gli occhi, ma prima ancora le coscienze. Invece, per Rosario Livatino ci sono solo altari scoloriti.

Lo ricorda la sua Canicattì, con la solita messa, volontà assoluta del padre di Rosario,  morto una manciata di mesi fa. Senza quel papà devoto, però, anche il ricordo, nella sua cittadina d’origine, sembra diverso a quello degli altri anni. Pomeriggio, sempre a Canicattì, un convegno, tra gli ospiti il prefetto, Francesca Ferrandino e poi un attore, Giulio Scarpati, che prima di essere “Medico in famiglia”, aveva interpretato il giudice, nell’unico celebre film che lo ricorda. “Non basta”,  dice al telefono Paolo, amico di Rosario, “il ricordo di un uomo libero non può scolorire nella schiavitù di chi dimentica”, aggiunge con un filo di voce. “E’ eroe chi muore per una causa grande. Rosario lo ha fatto e ora, tranne qui, nel resto della provincia, nel capoluogo chi lo ricorda? A un ventennio dalla morte, come minimo, occorreva scuotere la società organizzando una marcia antimafia, una fiaccolata, portando a spasso per le vie della città le foto di Rosario e il testamento morale che ci ha lasciato. Invece sempre le solite cose, necessarie sì, ma solite”.

Le autorità di Agrigento, Rosario, lo hanno ricordato con una corona di fiori deposta sulla stele nel luogo del dramma. Pure quel monumento non trova pace. Là, in quel punto maledetto della ss 640 ci sono i lavori per il raddoppio e quindi, presto o tardi, quell’altare di marmo dovrà essere tolto, forse spostato altrove. La scorsa settimana il CSM ha parlato di Rosario nella Città dei Templi, ma lo ha fatto a porte chiuse, nel corso di un congresso per addetti ai lavori.

“Gli eroi antimafia – prosegue Paolo, l’amico di Rosario – vanno ricordati a voce alta. Il loro nome deve tuonare, perchè non si dimentichi il sacrificio, perchè i mafiosi, che sono ancora tanti, troppi ad Agrigento, comprendano che la lotta continua”. Intanto Rosario, in punta di piedi, rimane nel cuore di chi lo ha conosciuto, di chi è pronto a giurare che quel servitore silenzioso dello Stato, se fosse stato meno solo, se fosse stato “meno ragazzino”, agli occhi dei potenti, forse potrebbe essere ancora qui.

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