Quello che dissero Graviano e Spatuzza - Live Sicilia

Quello che dissero Graviano e Spatuzza

La notizia dell'indagine su Schifani è contenuta in un articolo di Lirio Abbate su "L'Espresso". Livesicilia lo pubblica. Il file dell'articolo che abbiamo ripreso è qui.
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L’ultima volta che il boss Filippo Graviano ha parlato a Gaspare Spatuzza (nella foto) dell’avvocato Renato Schifani, è stato nel carcere di Tolmezzo. Correva l’anno 2000 e i due mafiosi palermitani, passeggiando nel cortile del penitenziario, commentavano le immagini dell’allora senatore di Forza Italia apparse nei telegiornali: “Hai visto che carriera ha fatto l’avvocato di Pippo Cosenza?”, chiedeva Graviano a Spatuzza nominando l’imprenditore del quartiere Brancaccio di Palermo che tra il ’91 e il ’92 aveva messo a disposizione del boss un capannone dove questi incontrava altri mafiosi e dove, appena uscito dagli arresti domiciliari, aveva creato il proprio ufficio di capomafia. In quegli anni il suo guardaspalle era Spatuzza, che oggi racconta ai magistrati quel che ricorda di quei contatti riservati, alcuni dei quali riguarderebbero anche il presidente del Senato che all’epoca era un avvocato: un esperto in diritto amministrativo e in urbanistica che aveva tra i suoi clienti molti mafiosi preoccupati che lo Stato mettesse le mani sui loro beni.

Di questa vicenda, che lega il nome di Graviano a quello di Schifani, Gaspare Spatuzza aveva già parlato con i pm di Firenze: gli investigatori della Dia l’avevano sintetizzata in una nota, depositata dalla procura generale nel processo d’appello in cui Marcello Dell’Utri è stato condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Quelle dichiarazioni non sono sfuggite ai pm di Palermo che per questo hanno voluto riascoltare il mafioso, in qualità di “dichiarante” e non come collaboratore di giustizia, visto che poco prima dell’estate non è stato ammesso al programma di protezione per i pentiti perché – come ha motivato il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano – avrebbe reso dichiarazioni sul conto di Dell’Utri e di Silvio Berlusconi oltre il limite dei sei mesi dal primo verbale imposto dalla legge (il provvedimento è stato impugnato dai suoi difensori e si attende la decisione del Tar). Eppure Spatuzza è ritenuto attendibile da tre procure oltre che dalla Direzione nazionale antimafia. L’interrogatorio è avvenuto il 20 settembre scorso, è durato oltre due ore e mezzo e ha riguardato gli incontri nel capannone di Brancaccio e il ruolo svolto nei primi anni Novanta dall’avvocato Schifani.

Il nome di Schifani è stato iscritto nel registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa: un atto dovuto, si dice in ambienti giudiziari. Già in passato il politico era stato indagato con l’accusa di partecipazione a Cosa nostra nell’ambito di inchieste su appalti pilotati dalla mafia a Palermo, e la sua posizione era poi stata archiviata. E anche in quel caso le principali accuse arrivavano da collaboratori di giustizia. Adesso, in seguito alle rivelazioni di Spatuzza e a quelle di un altro pentito, Francesco Campanella – il mafioso-politico che tra l’altro fornì una falsa carta d’identità a Bernardo Provenzano per consentirgli di farsi operare in Francia – i riflettori sono tornati ad accendersi su Schifani. Il verbale con le dichiarazioni del guardaspalle dei Graviano trasmesso dai magistrati di Firenze e un esposto presentato da Campanella proprio nei confronti del presidente del Senato hanno convinto i pm palermitani della necessità di esercitare l’obbligatorietà dell’azione penale. Il fascicolo che riguarda il presidente del Senato è stato aperto pochi mesi fa e gli interrogatori in corso hanno come oggetto il suo passato di avvocato civilista, i suoi rapporti con gli uomini dei Graviano e il suo presunto ruolo di collegamento fra lo stragista di Brancaccio e Dell’Utri nel periodo che ha preceduto la nascita di Forza Italia.

Spatuzza ha spiegato ai pm che il suo compito era proteggere Filippo Graviano e per questo, ogni volta che il boss si trovava nel capannone messogli a disposizione dall’imprenditore Cosenza (fino al 1992), sorvegliava l’ingresso per evitare o prevenire “brutte sorprese” al boss. E in molte di queste occasioni il dichiarante ammette davanti ai pm di Palermo di aver visto entrare Schifani, ma aggiunge di non aver partecipato ai colloqui del suo capo. Il volto di Schifani – racconta il dichiarante – gli divenne però familiare proprio per le numerose visite che l’avvocato palermitano faceva al capannone, e sempre in coincidenza con la presenza di Graviano. E gli inquirenti si chiedono: perché l’avvocato preferiva recarsi nella sede di lavoro del cliente (Pippo Cosenza, ndr.) anziché riceverlo nel proprio studio?

LIRIO ABBATE


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