Così cominciò la storia | del figlio di don Vito - Live Sicilia

Così cominciò la storia | del figlio di don Vito

Le tappe di un percorso
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Fino al 2005 era un personaggio quasi sconosciuto, oggi, invece, è sulla bocca di tutti e oggetto di dibattito. Massimo Ciancimino è affiorato alle cronache che contano quando i magistrati della procura di Palermo si sono messi alla caccia del ‘tesoro’ del padre.
Riciclaggio e fittizia intestazione di beni erano le accuse sul suo capo, ma lui – stando ai suoi racconti – era tranquillo perché aveva la garanzia di uscire indenne. Era il patto, stretto con non meglio identificati uomini delle istituzioni, collante dell’accordo nel quale vengono chiamati in causa anche gli ufficiali del Ros dei carabinieri protagonisti della cattura di Totò Riina. Ma così non va.

Massimo Ciancimino viene condannato in primo grado il 10 marzo 2007 a 5 anni e 7 mesi insieme a Gianni Lapis per il riciclaggio del patrimonio del padre. Ed è allora che in lui scatta qualcosa. Non doveva essere condannato, era l’accordo. Perché, poi, di tutti i figli di Don Vito doveva toccare proprio a lui. La testa di Massimo Ciancimino, una vita dedicata al padre (“dei figli ero quello sacrificabile” dirà in una testimonianza), è piena di domande e da un grosso dubbio: quello di essere stato tradito. Così comincia a parlare, ma non ai magistrati. Decide di parlare con Gianluigi Nuzzi che pubblica, il 19 dicembre 2007, un articolo su Panorama.
E’ l’esordio del Ciancimino-pensiero. E nel testo dell’intervista ci sono diversi elementi che suscitano l’interesse dei magistrati. Comincia così la storia di Ciancimino testimone di giustizia e si apre, di fronte alla pubblica opinione, lo scrigno dei misteri italiani.

Ma Ciancimino jr non parla di tutto anche se porta, a riprova delle sue tesi, i vecchi documenti del padre. I magistrati cominciano a cercare riscontri incappando in una documento scottante: fra le carte sequestrate al figlio dell’ex sindaco di Palermo c’è una lettera minatoria, strappata, indirizzata a Silvio Berlusconi. Nome che, fino ad allora, non era uscito dalla bocca di Massimo. Così abbiamo il punto di non ritorno. I magistrati mostrano il foglio al dichiarante e lui si sente male, scoppia a piangere. “Io non volevo parlare di queste cose” ripeterà sovente. Ma gli investigatori hanno scavato oltre le sue dichiarazioni e hanno trovato qualcosa. E da quel momento nulla sarà più lo stesso. Massimo Ciancimino parla a ruota libera delle confidenze fatte dal padre in un particolare momento della vita, quando la depressione alla finestra – dopo 7 anni di carcere – lo induceva in un “gioco” della memoria a ripescare ricordi da immortalare in un libro. Per Massimo era anche il riscatto per suo figlio, chiamato Vito Andrea, per dimostrare che il padre, in fondo, si muoveva in un contesto pregno di mafiosità. Anzi, era colui che cercava di frenare gli istinti ‘bestiali’ dei corleonesi cercando di mantenere un equilibrio nei rapporti con le istituzioni.

E, così, Massimo diventa un frequentatore assiduo delle procure, soprattutto quelle di Palermo e Caltanissetta. Parallelamente, però, la sua vita diventa blindata. Man mano che vengono fuori le indiscrezioni sulle sue dichiarazioni, gli atti intimidatori nei suoi confronti si moltiplicano e non escludono neanche i membri della sua famiglia. Ogni volta Massimo consegna ai magistrati documenti che aprono nuovi file: dalla strage di Ustica al caso Calvi, dalla trattativa per far cessare le stragi fino alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. E consegna quell’oggetto quasi ‘mitico’ su cui si sono sprecati fiumi di inchiostro: il papello di Totò Riina. In molti credevano che in vita loro non lo avrebbero mai visto.

Ma a documenti si aggiungono altri documenti senza il dovuto tempismo. “Ciancimino fa dichiarazioni a rate” sostengono in molti. “Ci dirà chi ha ucciso Kennedy” dicono irridendolo. Lui ha sempre sostenuto che man mano ha messo ordine nell’archivio del padre – un “grafomane” l’ha definito – ha portato le nuove prove confortate anche dalle perizie che li hanno datati adeguatamente, fornendo un importante riscontro.
“Vorrei sapere qual’è la legge che mi concede benefici per quello che sto facendo” continua a sostenere Massimo Ciancimino e incassa la condanna in corte d’appello: 3 anni e quattro mesi, i giudici gli hanno concesso le attenuanti generiche.

E lui va avanti, fino alla prova del fuoco. Le sue dichiarazioni, infatti, si intersecano con l’impianto d’accusa all’ex generale dell’Arma, Mario Mori, imputato di aver favorito Cosa nostra per non aver fatto scattare, il 31 ottobre 1995, il blitz che avrebbe consentito la cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso. Anche questo starebbe nel “patto” raccontato da Massimo Ciancimino: Provenzano avrebbe consegnato Riina e garantito l’inabissamento della mafia siciliana. Niente più stragi. Così, nel febbraio e nel marzo scorsi, Massimo Ciancimino si presenta di fronte al tribunale e rende una testimonianza che, comunque vada, resterà nella storia giudiziaria del Paese. A quella, però, non si aggiunge un’altra testimonianza, caldeggiata dalla procura generale: quella contro il senatore Dell’Utri. Da quella vicenda viene fuori il primo bollo di inattendibilità su Ciancimino.

Quindi, seppur Ciancimino ha dato un contributo a fare luce su alcuni episodi di storia italiana – “va valutato caso per caso”, secondo i magistrati palermitani – le ombre che stanno attorno a lui sono tante. E se poi tira in ballo un’icona della lotta alla mafia come Gianni De Gennaro le ombre diventano sospetti. Quando poi viene intercettato mentre parla con un boss della ‘ndrangheta, del clan dei Piromalli, su un presunto riciclaggio i sospetti si addensano. Ma è forse il suo destino, quello dell’erma bifronte: con una faccia rivolta alla luce fatta sulle peggiori zone poco chiare dello Stato italiano nel periodo delle stragi e con l’altra nell’ombra, nella quale è difficile scrutare e farsi un giudizio.


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