La notizia dell'arresto| e l'ingiusta detenzione - Live Sicilia

La notizia dell’arresto| e l’ingiusta detenzione

A cambiare per sempre la mia vita fu il suono del citofono. Erano le 6 del mattino e quel trillo metallico risuonò gelido e inaspettato tra le mura di casa, come una campanella che chiama al raduno i ragazzi assonnati davanti ai cancelli della scuola. Aprii la porta, e dopo avermi mostrato un tesserino di riconoscimento, quattro uomini della Guardia di finanza mi dissero che dovevano entrare in casa per un controllo. Entrarono. Con mio padre, mia madre e mia sorella ci sedemmo in salotto, storditi per il sonno, e increduli per la situazione che stavamo vivendo: l’intimità di un qualsiasi venerdì mattina di fine estate, violentato da mani sconosciute che frugavano nei nostri cassetti, nei nostri armadi, tra i nostri vestiti. Ad un certo punto un uomo, un finanziere di cui fino a 15 minuti prima non sospettavo neanche l’esistenza, mi chiamò in disparte sul balcone e senza troppi giri di parole mi marchiò a fuoco nella memoria queste parole: “Lo dice lei a sua madre, o lo devo dire io?”. C’era un mandato d’arresto; quei finanzieri erano venuti a prendere mia madre. Tutto si fermò. Rimasi un paio di minuti da solo, quindi percorsi quei pochi interminabili metri che mi separavano dal balcone al salotto. Un po’ boia, un po’ condannato a morte, incontrai lo sguardo di mia madre e l’unica frase che riuscii a pronunciare fu: “Mamma, non si tratta soltanto di una perquisizione…”. Lo stordimento si tramutò in stupore; lo stupore in sconcerto. Solo il silenzio rimase tale. Ad interromperlo fu ancora una volta il finanziere che mi disse di preparare una piccola borsa con i vestiti che mia madre avrebbe dovuto portare con sè al Pagliarelli. Mentre riempivo quella valigia mi impegnai in una vera e propria battaglia con me stesso: per 21 anni la testa e il cuore mi avevano suggerito un’immagine di mia madre che in quel preciso istante veniva cancellata, annientata, distrutta da quella circostanza. Le diedi la borsa e alle 7,15 andò via insieme a quegli uomini e a mia sorella che la volle accompagnare al comando della Guardia di finanza.

Il giorno dopo, il 21 settembre, la notizia dell’arresto di mia madre era sulla prima pagina del Giornale di Sicilia,
e su quella dell’edizione di Palermo di Repubblica. Leggere quegli articoli, che proponevano la ricostruzione di quelle fasi fornita evidentemente da uno dei finanzieri che venne a casa, fu come passare un foglio di carta vetrata sulle ferite ancora sanguinanti aperte il giorno prima.

Quanto dura un’ora? Quanto un minuto? Non lo so. So però quanto dura un secolo: un secolo dura 8 giorni, gli stessi che mia madre trascorse dietro le sbarre del carcere. Intanto, dentro di me, la battaglia continuava: da un lato c’erano le cinque ore d’attesa al Pagliarelli per poter vedere mia madre; c’era il suono delle chiavi dei secondini, lunghe 30 centimetri, che una volta inserite nelle serrature diventano maniglie di pesanti porte marroni di ferro. Il loro suono penetra fin dentro le ossa, e non va più via. Dall’altro lato c’erano i telegrammi di mia madre, inviati dal carcere, che da dietro le sbarre ci rincuorava, urlando con forza la sua innocenza. Appena 24 ore dopo il nostro incontro al Pagliarelli, mia madre fu rilasciata e potè tornare a casa.

Ci raccontò di un fornellino elettrico guasto che in cella usava per cucinare, e che si spegneva ogni mezzo minuto. Ci raccontò dello spaccio interno al carcere dove era possibile acquistare sigarette o quelle altre poche cose che possono servire in una cella. Ci parlò degli sguardi e dei volti di pietra delle guardie carcerarie, e della dolcezza di una psichiatra che si occupava del supporto psicologico alle detenute.

Il processo iniziò pochi mesi più tardi, seguì il rito ordinario, e si concluse nel febbraio del 2008, con una sentenza di assoluzione con formula piena, che diede vita ad un altro processo che sancì un sostanzioso risarcimento per l’ingiusta detenzione, e il danno d’immagine. Come se i soldi potessero lenire i dolori, o guarire le ferite causate dagli articoli apparsi durante quei 6 anni; o gli sguardi della gente che ti riconosce per strada, o le mezze frasi smozzicate alle spalle. Si dice che “ogni cattiva notizia sia una buona notizia”, è vero. Fu infatti soltanto in virtù dell’amicizia con un bravo cronista del Giornale di Sicilia, che riuscimmo ad onorare quella sentenza d’assoluzione, che altrimenti sarebbe stata destinata a perdersi nell’angusta colonna delle “brevine”, o ancor peggio ad un misero oblio. Ogni cattiva notizia è una buona notizia, fortunatamente non per tutti.


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