"Povera Sicilia residuale, | orfana di un prefetto di ferro" - Live Sicilia

“Povera Sicilia residuale, | orfana di un prefetto di ferro”

Intervista a Pietrangelo Buttafuoco
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Pietrangelo Buttafuoco, lei cresciuto a pane e Heiddeger, sostiene da sempre che l’idea della grecità debba essere il punto di riferimento per il Sud. Il popolo siciliano ha perso la bussola?
L’ha persa la bussola in ragione di un più gigantesco smarrimento, quello di un destino che vedeva nella Sicilia il centro del Mediterraneo e dunque centro di un movimento spirituale e geografico fondamentale negli equilibri del mondo. Avere rinunciato alla propria storia, sia essa la grecità, l’identità islamica o, anche, essere crocevia di popoli e culture sommatesi nei secoli all’interno dell’Isola, ha determinato uno sconquasso immane: fare della Sicilia una periferia, un luogo della residualità”.

Appena un settimana fa veniva pronunciata la sentenza di condanna a Totò Cuffaro per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreti d’ufficio. E’ dai tempi di Cesare Previti che non vediamo un colletto bianco varcare la soglia del carcere di Rebibbia, non sarà che la gente si sia talmente abituata a vederli farla franca, che una volta in cui il processo compie il suo corso, provi quasi rimorso per aver chiesto verità giudiziaria? Si spiegherebbero i riconoscimenti bipartisan alla dignità dimostrata da Cuffaro.
“Se permette, le rispondo riportando quanto ho scritto su Il Foglio: Totò Cuffaro, nella sua simpatia, annida il nocciolo di una tragedia dostoevskijana. E la simpatia, nei fatti di mafia, è un inedito. E la simpatia, in galera, si spegne sempre, diventa martirio, e quella sentenza in appello, ancora più crudele della prima condanna, rivela un eccesso di giustizia. Quello che – e lo diceva Calamandrei – è solo “mala giustizia”. In tutto questo frastuono italiano, il nostro Cuffaro – con tutte le attenuanti al suo dramma, con un cancello dietro le spalle – è il primo sassolino che mette sottosopra il tacito patto tra delitto e castigo perché, per ogni mafioso che delinque pensando di essere uno perbene, c’è sempre un galantuomo che tutti vogliono riconoscere delinquente per mettergli addosso le braghe del galeotto. Alla simpatia che ha messo lui nel prendere un pigiama e un libro e poi andare, ha fatto da contrappasso non la vigliaccheria di chi non s’è voluto esporre, ma l’elogio peloso dei carnefici. E se tutto il male, infine, è stato chiuso a Rebibbia, non si può certo dire oggi che la Sicilia e il mondo intero abbiano avuta la meglio sulla mafia, no. Chiunque faccia politica, in Sicilia, come chiunque faccia impresa, prima o poi, si suca due immancabili appuntamenti: o la galera o il fallimento. Per gli imprenditori, poi, l’uno e l’altro. A meno che, in luogo di produrre ricchezza e libertà, fanno la flanella della testimonianza. Ma limitarsi a dire che la mafia è il male, infatti, fa il paio con la mafia non esiste”.

 Il Partito Democratico e Futuro e Libertà, rivendicano in ogni occasione istanze legalitarie ma aderiscono al quarto Governo di Raffaele Lombardo, il quale è attualmente indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. E’ concesso ritenere che la mancata esclusione della mafia dalla politica, dipenda anche da una scarsa cognizione della legalità e della trasparenza da parte di chi ci amministra?
Nel quarto governo Lombardo, se non vado errato, e anche nella direzione di settori delicati dello stesso governo, sempre se non vado errato, ci sono molti magistrati e professionisti di provata esperienza in tema di lotta alla mafia. Non credo che sia una scarsa cognizione della legalità e della trasparenza né in questa compagine, totalmente ostile al Pdl nazionale, né nelle precedenti alleanze di governo, quelle più esplicitamente legate al berlusconismo trionfante. Ritengo che si debba sempre fare la tara, a maggior ragione noi siciliani, da certi riflessi condizionati secondo cui tutto si riduce a mafia. Un po’ come nella metafora del ponte di Messina. Se si fa vuol dire che si fa un favore alla mafia attraverso gli appalti. Se non si fa vuol dire che si fa un favore alla mafia mantenendo lo status quo. Insomma, con la scusa della mafia si liquida ogni possibilità di analisi. E’ molto più grave, infatti, il livello dei nostri politici. Ho avuto occasione, recentemente, di intervistare Mimì La Cavera. Ed è stato lui ad illuminarmi con questa frase: “Quando negli anni ’50 dovevamo preparare le liste elettorali del Pli, il mio partito, ricordo che quasi mi mettevo in ginocchio per convincere qualche galantuomo a mettersi in lista. C’era una forma di pudore e dovevamo violentare l’innata riservatezza di personalità specchiate e culturalmente preparate. Adesso, al contrario, tutti fanno a gara per farsi candidare. Tutti vogliono fare i politici. Qualcosa vorrà dire”. Appunto, qualcosa vorrà dire”.

Parliamo di antimafia nelle aule di tribunale. Come valuta attualmente la gestione del sistema dei collaboratori di giustizia? Massimo Ciancimino, per esempio, occupa un ruolo chiave nell’inchiesta sulla “Trattativa Stato-Mafia”, ma fino a che punto possiamo considerare affidabili le informazioni fornite da chi, intercettazioni alla mano, avrebbe continuato a mantenere rapporti con figure non specchiate?
Se uno come Massimo Ciancimino ha tentato di sporcare l’onore e la storia di un vero grande italiano, un patriota vorrei dire, come Gianni De Gennaro, mi sembra superfluo attardarsi per cercare di trovare alcunché di affidabile e attendibile”.

In questi mesi uno scrittore come Roberto Saviano divide l’opinione pubblica. C’è chi dice che quelli come lui non rischiano nulla, mentre chi combatte ogni giorno la mafia sulla strada, rimane relegato nel silenzio mediatico. Lei che idea si è fatta?
“Può anche darsi che tutto faccia brodo. Mettiamola così: serve l’uno e serve l’altro. Serve la popolarità planetaria di Roberto Saviano e serve la pistola del più anonimo dei poliziotti. Se proprio vuole una provocazione da fascio, gliela porgo pure: “E’ Saviano che traccia il solco ma è la Polizia di Stato che lo difende””.

Il 19 gennaio si è celebrato il compleanno di Paolo Borsellino. Lui disse che politica e mafia, essendo poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si rischia che si mettano patologicamente d’accordo. Oggi come li vede i rapporti?
“Saranno messi proprio male questi rapporti. La mafia, secondo me, non è altro che un’associazione di uomini legati da affari criminali, ma pur sempre affari e pur sempre criminali, tesa a prendere possesso di un territorio. Siccome il territorio è sempre più residuale, periferico e povero, ritengo che anche la politica, specchio obbligato di una società, sia strategica ad un fallimento e non alla crescita. Mi spiego meglio: o c’è lo Stato, o niente. Lei mi provoca e mi fa venire fuori tutti i burp della mia cattiva educazione. E dunque: tutto nello Stato, nulla fuori dallo Stato, niente contro lo Stato. Altro che mafia, altro che politica. Un territorio sovrano controllato e retto dai servitori dello Stato. Ma in questo caso ci vuole un Cesare Mori, un prefetto di ferro. Ed è tutta un’altra storia”.


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