Livia e le ultime parole - Live Sicilia

Livia e le ultime parole

I funerali della figlia di Angelo Morello
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3 min di lettura

Fuori, i ragazzi giocano a pallone. Un ragazzo e una ragazza si baciano sulle labbra attraverso il cancello del Don Bosco Ranchibile. Lei ha la coda di cavallo e il viso sbarazzino. Lui ha la faccia da super-cannoniere del campetto in cemento dell’oratorio che oggi serve da parcheggio. Il pallone in un angolo, la rete bianca e smagliata che dondola al vento sono promesse di felicità.
Dentro c’è Livia. E la vorresti fuori, col sole e con i baci, non nella penombra della bara e dell’incenso funebre. Livia Morello, diciotto anni, stroncata da un fulmine nel petto di notte. Aveva un cuore bellissimo. In prima fila la famiglia, Angelo, caporedattore di Tgs, la moglie Roberta e il figlio. Il fratello di Livia si chiama Guido. E’ un ragazzo con l’anima salda, da uomo. Anche lui ha le sue lacrime da tenere a bada, eppure consola il pianto degli altri. Sorregge la madre. Sostiene il padre. Papà Angelo è una vela nella tempesta. Affronta il dolore lancinante col valore che gli riconosciamo e che ci ha portato, in anni per noi fortunati di contiguità professionale e umana, a stimare la sua statura di persona. Quando il prete invoca sua figlia per nome, Angelo non si trattiene più. Porta le dita all’altezza degli occhiali. Piange. Roberta, la mamma, è l’albero che mantiene in piedi quella vela.

C’è Rosario, bravo ed esperto cameramen di Tgs. Racconta ciò che accade da invisibile, con consumata abilità, danzando leggero tra le panche. Maneggia l’attrezzo come se fosse una croce da trascinare sul Golgota. Sembra in zona di operazioni di guerra, o nell’epicentro del terremoto giapponese, bersaglio di polvere e schegge. Rosario si muove a fatica. La telecamera è un macigno sulle sue spalle da veterano. C’è Alessandro che ha visto e narrato diecimila sconfitte del Palermo, suo malgrado. Ora se ne sta attonito al cospetto di una perdita totale, assoluta. Magari si potesse esonerare la morte e richiamare la vita in panchina. In fondo alla chiesa, c’è Carlo Brandaleone. Ha perso sua figlia, in un tragico incidente. Alessandro Amato, invece, è diventato papà da qualche giorno. E’ il pallone che rotola e va dove crede, segnando gol e autogol, sul prato e nel destino.

C’è uno splendido sacerdote all’altare. Non circuisce il lutto con le chiacchiere di maniera che addobbano le esequie. Cerca una strada diversa e onesta. Va dritto dentro lo strazio con la prua della consolazione e delle carezze. L’eternità, nella sua omelia, sembra quasi a portata di passo. Somiglia alla finestra del vicino di casa. La sfiori, sporgendoti con le mani fino al vaso con i gerani rossi.
Ci sono i professori e i compagni di Livia. Formano un gruppo inestricabile al microfono. Ognuno narra un pezzetto di strada, che è già rimpianto. Angelo, intanto, parla con Livia. Fa un movimento delle mani verso la bara, come se il tatto potesse oltrepassarla, in cerca di una guancia nota. Gli occhi seguono. Sono luminosi secondi di dialogo. Il padre lancia gli ultimi sassi per increspare l’acqua del suo amore. La figlia risponde con un dolcissimo silenzio.


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