Attia e Salah, partigiani moderni|di una guerra senza tempo - Live Sicilia

Attia e Salah, partigiani moderni|di una guerra senza tempo

al di là del mare
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Perché i tempi si sono fatti veloci. Casa, lavoro, famiglia, la domenica al mare, e ci passano rutilanti le immagini di volti sui barconi, di sagome che fanno la guerra. Le vediamo distrattamente quasi ogni giorno, magari all’orario dei pasti, come una pillola amara da prendere, e poi basta, si spegne tutto e si ritorna al nostro mondo. Solo che quelle facce sono appese a delle storie, incredibili a volte.

Quelle che vogliamo raccontarvi oggi però non sono storie tristi, anzi, sono storie di piccoli miracoli. Siamo al Policlinico di Palermo, il professor Moschelli ci accompagna al reparto dove dal 28 luglio ci sono alcuni libici feriti dai militari di Gheddafi che qui sono stati curati. Sono dei civili che si sono ribellati.

Arriva Salah, sono con un interprete ma i suoi occhi parlano da soli, potrei non averne bisogno. È un uomo francamente bello, ha 38 anni, spalle larghe, la pelle scura come la terra e un braccio ingessato. Ci racconta che la ferita se l’è fatta perchè un suo compagno ha pestato una mina ed è esplosa, e una sua scheggia l’ha colpito al palmo della mano.

Ha lesioni ai legamenti fratture in quasi tutte le dita. Ma dice che è stato molto fortunato perché quella stessa mina ha ucciso un suo compagno, e nello stesso momento un missile è finito nella macchina degli altri che li stavano aspettando. Precisa che lui è un civile, non ha mai imbracciato armi. “Non posso scordarmi il giorno in cui Gheddafi ha deciso di distruggere tutta Bengasi, ha ordinato ai suoi di uccidere tutti i ribelli e di violentare tutte le donne, e di farlo davanti ai loro mariti. Era il 18 marzo e così io e i miei compagni abbiamo deciso di organizzarci e di fermarli. Io nella vita faccio la guida turistica, anche se negli ultimi 7 anni ho lavorato poco perché Gheddafi ostacola l’ingresso ai turisti”.

Racconta che la Libia è piena di cose belle, che ci sono spiagge vergini e tanti monumenti, c’è pure una montagna bellissima chiamata “Monte verde” ma quando chiediamo qual è tra questi il suo posto preferito, risponde semplicemente, senza pensarci: “casa mia”.

“Adesso i ribelli hanno preso Tripoli, io tornerò a casa il 6 settembre e non vedo l’ora di rivedere la mia famiglia, mia cugina si è sposata in questi giorni e io non ero lì. Finalmente però c’è aria di libertà, l’unica cosa che desidero è che nel mio Paese torni la pace e che io possa tornare al mio lavoro. Spero di non dovere mai più combattere, ma se ce ne sarà bisogno, certamente tornerò a farlo”.

Sembra un po’ stanco Salah e lascia la parola al suo connazionale anche lui ricoverato tra questi corridoi, Attia, che invece sembra non veda l’ora di raccontare la sua di storia. Poi capiamo perchè. Attia ha 45 anni anche se sembra averne molto meno, la sua è la storia di un miracolo. La prima cosa che mostra è la sua ferita. Un proiettile l’ha colpito il 18 marzo perché lui è stato tra i primi a combattere ed era in prima fila. Racconta che è sposato e ha 7 figli, di cui 5 femmine e ha deciso di ribellarsi e scendere in campo quando ha saputo dell’ordine di Gheddafi di violentare le donne. “Già da molto tempo volevamo fare una rivoluzione e quelle dei nostri paesi vicini ci hanno incoraggiato molto a farlo. Aspettavamo solo il momento opportuno. Poi sono stati denunciati dalle donne 16.000 casi di violenza”.

Ci racconta che quando ha visto avvicinare i soldati di Gheddafi c’erano 20 km di carri armati, un arsenale mai visto, e loro erano in 5.000. “Io ero in prima fila, sono stato colpito e poi catturato, mi hanno portato nel carcere di Tripoli dove ho subito molte torture per due mesi e mezzo. Eravamo circa 2000 persone”. Deve ricordargli cose terribili perchè abbassa i suoi occhi quasi troppo verdi.

“Ma poi è successa una cosa che mi ha salvato la vita – racconta –  sono arrivati quelli della televisione di Stato che volevano intervistarci per far vedere che non era vero che ci torturavano. Io mi sono offerto volontario e mi hanno portato nella sede della tv. Solo che un mio parente che lavorava per l’emittente mi ha fatto scappare. Mi ha salvato”.

Dice che ci pensa ogni giorno e che certe volte è talmente stanco di farlo che preferisce dormire. “Sono uscito da un’altra porta da quell’edificio, mi sono tolto la tuta del carcere, quella blu come quella di questo infermiere che passa e che ogni volta me la ricorda. Sapevo che c’era una macchina che mi aspettava, il percorso da lì alla macchina sarà durato circa 3 minuti, ma sono stati i più lunghi della mia vita. Il mio cuore mi sembrava fermo. Mi sono salvato così, ma ancora mi sembra di vedere la mia bara. Da lì sono stato portato a Tunisi dove sono stato nascosto in una casa per tanto tempo, poi sono tornato a Bengasi e lì ho saputo che c’era un comitato italiano che avrebbe portato dei feriti in Italia. Io avevo ancora la ferita del proiettile, in carcere io e i miei compagni l’avevamo estratto e avevamo cercato di tamponarla con le piume che imbottiscono i giubbotti, non avevamo altro”. Già che c’è se la ritocca e mostra anche una sua foto.

Attia indossa una maglietta con scritto “Italia” ma accanto c’è una spilla con la bandiera della Libia e sembra incredibile averlo davanti. “Da due giorni però sono felice perché ho saputo che mio cugino che era con me nel carcere di Tripoli è stato liberato. Io tornerò il 6 settembre a casa. Qui sono stato bene, mi hanno trattato bene ma non vedo l’ora di vedere la mia famiglia che sento almeno 4 volte al giorno. L’unica cosa che sogno adesso è che il mio Paese diventi libero e un modello per tutta l’Africa che i miei figli riescano a studiare e diventare persone importanti. Magari all’estero”.

Gli chiediamo di descrivere con un aggettivo il suo popolo. Ci pensa tantissimo, come se fosse una cosa proprio importante. Si tocca il naso, la testa, sta in silenzio, rigira le mani. Poi dice “secondo me: “eroico”. Perché nessuno pensava che Gheddafi, quello che io non considero neanche un uomo, potesse essere sconfitto”. Sorride.


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