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Appunti per una città nuova

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Quando mio fratello Marcello si è seduto su una sedia a rotelle, immediatamente si è capito chi era il disabile tra noi due. Io.
Io che in tre decenni e qualcosa passati accanto non ero mai riuscito a dirgli quanto gli volessi bene. Io che ero il fratello minore, nonostante avessi qualche anno di più. Io che avevo paura della sofferenza, mentre lui l’affrontava con uno stratagemma: non potendo più camminare, volava. Generalmente, a questo punto i cosiddetti normali vanno via, se sono educati, con qualche rimorso. In quanti siete rimasti? Va bene anche uno solo. Basta per cominciare a cambiare il profilo del mondo

La disabilità è una questione politica, etica e pratica. Politicamente serve per misurare il grado di avanzamento di un posto scelto a caso. Se una comunità riesce ad attutire la distanza, se offre sollievo e non espiazione amarissima a chi ha problemi con il corpo ma, spesso, è molto avanti con lo spirito, già siamo alla cartina di tornasole della buona amministrazione e dell’efficace educazione civica. Se a Palermo i disabili godessero di percorsi appena più semplici, il resto sarebbe un Paradiso per coloro che hanno la ventura di muoversi sue due gambe e non ricordano nemmeno di essere fortunati.

Qui il sindaco c’entra poco. Sono più responsabili i bipedi di passaggio che considerano il disabile, anzi “l’handicappato”, come un intralcio o perfino un latore di privilegi. Uno che ha la pensione e il posto riservato. Una creatura contro cui esigere la vendetta degli sfigati che non comprendono la fioritura del sorriso in cima al dolore. Non ci arrivano. Vorrei un sindaco in carrozzina per Palermo. E al consiglio comunale voterò per una candidata in sedia a rotelle. C’è più progetto in lei che in centomila cartelloni di normodotati.

Eticamente, la disabilità è utile per misurare il nostro rapporto con la morte, nel perimetro del nostro valore, poiché ogni forma di invalidità permanente somiglia, di rovescio, alla morte, col suo “fine pena mai”. Non è facile convivere con un rintocco di campana funebre. Ma è colpa nostra, dell’orecchio parziale che ci rende veramente handicappati. Noi avvertiamo il suono del disfacimento, del visibile che si scompone, del fiato che arranca. E siamo ciechi alla gioia acquattata nell’attimo successivo. Marcello è stato un uomo migliore – e ci ha resi migliori – dopo un evento tanto grande da mutare per sempre il corso delle cose. Erano proprio le cose che cambiavano. I pezzi. Le gambe. La superficie. Per naturale contrappasso, aumentavano le risorse del corpo invisibile. Le gocce di bellezza non furono, da quel giorno, più disperse. L’handicap è un duro praticantato che ha l’esistenza tutta intera – se superi il roveto a forza di coraggio – come inaspettato dono finale.

La questione, infine, è pratica. I disabili sovvertono le prospettive. I luoghi domestici si deformano. Il bagno si allarga. Il rapporto con il letto, con la sedia, con la tavola è un’invenzione da sperimentare ogni giorno. La casa in cui abita un disabile è un manifesto pedagogico. Insegna quanto sia intelligente gettare il ciarpame inutile per amore.

Non si tratta soltanto di storie personali. Non lo sono in esclusiva la foto di Giulia e Cinzia, accompagnata da parole che scavano nella roccia, né il video e la preziosa di testimonianza di Lorena e Salvo. Non finiremo mai di ringraziarli.  Questi appunti sono sogni che arrivano da un binario lontano, per metà oscuro e per metà abbagliante. Sono miracoli. Sono respiri per una città nuova.

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