Quando i bambini vanno all'inferno - Live Sicilia

Quando i bambini vanno all’inferno

Questo mese Sarullo si occupa delle amministrative.

Dal magazine "S"
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3 min di lettura

Aveva sette anni quel bimbo ed aveva già ricevuto la Prima Comunione. Un po’ in anticipo, certo, ma i suoi genitori s’erano convinti che fosse pronto. Per lui un solo rammarico: l’abito grigio invece della tanto sognata divisa da comandante di nave. I rudimenti del catechismo gli erano stati somministrati da una brava signora, attenta a dare gli elementi comprensibili a quell’età infantile. Seguendo con scrupolo le prescrizioni ricevute, il bimbo si apprestò alla seconda Comunione andando a confessare preventivamente i propri peccati. Qualche cattiva parola, qualche bugia, un paio di malanimi nei confronti del padre e, con voce tremula, numerosi atti impuri. Il che equivaleva a fornicare, ma egli li chiamò meno sontuosamente atti impuri perché fornicare gli dava una sensazione di prurito da insetti. “Che hai detto?” gli gridò piano il vecchio prete sempre sbuffante per un cronico reflusso esofageo, “che hai detto?” . “A-a-atti impuri” balbettò il piccolo penitente e il prete gridò: “atti impuri!” e risuonò come la maledizione urlata da Giovanni Battista contro la lussuriosa Salomè. Il bimbo aggiunse: “Co-così mi hanno detto…”. E l’altro: Via, vai via! Non ti assolvo. Via!”. Di corsa a casa, perché piangere per strada non era virile. La madre stentò a capire le sue parole tra i singhiozzi, poi rise. Prima rise, poi gli chiese dolce e seria: “Che vuol dire atti impuri?”. “Quando mi tocco la pipì…e io me la tocco…” concluse il piccolo, cioè io. Mia madre rise di nuovo, poi si scurì: “E non ti ha assolto… Gino – disse a mio padre che ascoltava con rispettosa distrazione – io vado in chiesa per spiegare a quello lì il peccato di chi scandalizza i bambini”. E lo fece.

Non a tutti càpita la fortuna di una maledizione tempestiva. E sono rimasto grato a quel povero prete perché mi aprì uno scenario vantaggioso: il ripensamento sulle nostre certezze. Ovviamente imparai a tempo debito e con soddisfazione il sostanziale significato della condanna subita a sette anni, ma appresi da subito che non dovevo fidarmi, neanche delle parole e dei concetti che mi apparivano semplici, comuni, condivisi. Appresi quanto sia faticosamente opportuno essere professionisti della vita, non soltanto in relazione alla classificazione degli atti impuri, ma soprattutto in ogni altro argomento o circostanza che mi avesse indotto ad una definizione e cioè ad un giudizio. Noi palermitani a maggio esprimeremo un giudizio e, chiamandolo voto, dichiareremo segretamente una scelta. Lo faremo portando in cabina le nostre convinzioni, confidando nella conoscenza che abbiamo dei fatti e sicuri delle parole che li definiscono. Già, i fatti. Già, le parole. Riteniamo i primi veri, le seconde appropriate. Quindi crederemo di potere giudicare, di potere esprimere il nostro voto stimabilmente. A me capitò di votare per gli atti impuri, ma di non sapere di che cosa stessi parlando. Oggi, in fondo, come ieri il segreto del confessionale, il segreto dell’urna non offre maggiori garanzie. Ma a sette anni si ha il diritto d’essere disinformati e di fidarsi del sentito dire. Dopo no. Dopo si rischia di non potere invocare l’età e di doversi rassegnare a sapersi colpevoli per una scelta creduta consapevole, stùpidi per raggiunti limiti d’età.


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