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Siamo tutti Milito?

Una partita di calcetto tra ragazzini diventa lo spunto per una riflessione che Adolfo Allegra propone nella sua rubrica “La timpulata Allegra”.
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Qualche anno addietro, mentre assistevo ad una partita di calcio della squadretta in cui giocava mio figlio dodicenne, avvenne un episodio che ritengo paradigmatico per quel che vorrei cercare di condividere con il lettore che non si è ancora stufato di leggere “La timpulata allegra”. Nel corso della partita i cambi tra i giocatori si susseguivano senza un particolare vincolo numerico e ragazzini già sostituiti potevano rientrare in campo dopo un certo tempo di “panchina”.

Quando mancavano circa 10 minuti alla fine della partita, la squadra per la quale tifavo (è facile immaginare quale fosse) perdeva 2 a 1 e in quel momento mi accorsi che i due migliori giocatori della “nostra” squadra (preciso che nessuno dei due era mio figlio) erano in panchina. Mentre tra me e me pensavo a come mai l’allenatore non facesse entrare i più bravi per tentare di pareggiare, a una interruzione del gioco mi accorgo che il “mister” richiama in panchina due giocatori. Penso allora: “Hai visto sta facendo entrare quelli che potranno ribaltare il risultato?”. Invece con mio grande stupore l’allenatore manda in campo due ragazzini in notevole sovrappeso (per non dire obesi) che non avevano pressoché alcuna confidenza con il pallone e che certamente non avevano la struttura fisica di un buon calciatore dodicenne.

La squadra di mio figlio perse la partita 3 a 1 e i due “robustelli” non toccarono il pallone neanche una volta; anzi, l’unica volta che ci fu un contatto tra uno di loro e la sfera fu soltanto per caso! Alla fine della partita, più per tentare di capire, che non perché avessimo perso una partita invece recuperabile, mi avvicinai all’allenatore e gli chiesi come mai, sul risultato di 1 a 2, avesse fatto entrare quelli che una volta venivano definiti “i brocchi” e non invece i bravi. La risposta mi raggelò, anche se dovevo aspettarmela.

“Dottore – mi disse il mister – quei due ragazzini avevano giocato soltanto 10 minuti nel corso della partita e, per un fatto di equità, alla fine tutti devono giocare bene o male lo stesso tempo”. La mente, a quel punto, tornò indietro di 40 anni a quando, adolescente, giocavo all’oratorio dei salesiani sotto casa. Il ricordo più nitido di quel tempo è legato al mio ruolo di “riserva”. Solitamente nelle partite di campionato non giocavo mai o, se giocavo, era sempre quando si vinceva con almeno 2 goal di scarto e non quando si perdeva.

Certamente, anche allora il calcio era lo sport “principe” e tutti avrebbero voluto giocare ed essere protagonisti, ma quello che era sideralmente diverso da oggi era il concetto che: “chi vince è la squadra e non il singolo”, “gioca chi è più bravo”, “se non gioco vuol dire che non sono meritevole”, “devo saper stare in panchina, se occorre anche per l’intera partita”. Certamente a nessuno fa piacere non giocare, ma lo sport è per antonomasia scuola di meritocrazia. Vince o, nel nostro caso, gioca chi lo merita, chi è più bravo. Allora come si può accettare che, perdendo una partita, rimangano fuori i migliori ed entrino i brocchi? Cosa devono pensare i bravi, che sanno di esserlo, ma devono restar fuori a guardare i brocchi? Che significato ha essersi impegnati allo spasimo per poi perdere una partita che si poteva vincere? Sono domande per cui c’è una sola risposta. Ed è sempre la stessa: è politically correct far giocare tutti “bene o male lo stesso tempo”.

Ma quale politically correct e politically correct del cavolo, questa è una scuola di comportamento che non insegna niente a nessuno e principalmente che mortifica tutti.


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