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Il danno

"Mi manca la palermitanità di Falcone. L'orgoglio smisurato spesso confuso per arroganza, il rigore che pretendeva da tutti dopo averlo imposto a se stesso. L'ironia spinta fino al sarcasmo, le reticenze verbali bilanciate dalle ammissioni con gli occhi e coi gesti".

SPECIALE FALCONE
di Francesco La Licata
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No, non c’è una cosa di Giovanni Falcone che mi manca. Mi manca proprio lui, la bussola per trovare la rotta nei percorsi accidentati della mafia e della mafiosità. Falcone era un punto di riferimento imprescindibile e più passa il tempo più mi vado convincendo che è proprio questo il danno che abbiamo subìto quel pomeriggio di quindici anni. Già, sono passati quindici anni e a quel danno non è stato neppure appena appena posto riparo. Non è venuto meno il riflesso condizionato che scattava di fronte ad avvenimenti apparentemente “tranquilli”, lontani e invece fortemente intrecciati all’evolversi della vita quotidiana siciliana. Qualunque notizia arrivasse dal mondo, da Paesi lontani piuttosto che da borgate vicine, se avevano un qualunque legame con Cosa nostra lui lo coglieva. Quante volte l’ho sentito spazientirsi per un collegamento che non riuscivo a cogliere e a lui sembrava evidente. «Pronto Giovanni? Come stai?». La risposta era raggelante: «Seduto, grazie. E ora dimmi perchè rompi». «Hanno fermato due di Corleone in trasferta in Emilia, che significa?». «Significa quello che si sa e cioè che da quelle parti, da anni ormai, opera – in forma ineccepibilmente imprenditoriale – un gruppo di parenti di Totò Riina. Bisogna allora vedere chi sono i fermati e capire se erano andati a fare danni o in amicizia. E ora non mi fare perdere altro tempo». Era così per tutto: per capire a chi interessava una legge, per interpretare una sentenza, in sostanza per non cadere nella banalità della prima risposta scontata. Se lo beccavi al telefono, ti si aprivano scenari inediti.

Questo indicatore non c’è più, eppure non è svanito l’automatismo di pensare di comporre quel numero di telefono. E ogni volta è lo stesso smarrimento per un’assenza che in quindici anni non è stato possibile colmare. Mi manca la palermitanità di Falcone. L’orgoglio smisurato spesso confuso per arroganza, il rigore che pretendeva da tutti dopo averlo imposto a se stesso. L’ironia spinta fino al sarcasmo, le reticenze verbali bilanciate dalle ammissioni con gli occhi e coi gesti. Il moralismo lieve che non gli impediva di cercare l’umanità anche dentro il peggiore dei delinquenti. La generosità nel lavoro: riusciva a produrre in ogni situazione. Leggeva e scriveva in macchina mentre filava a 140 all’ora, lavorava in aereo e si portava le carte a casa. Insomma, uno di quei palermitani che, quando sono buoni, sono davvero buonissimi.

Mi manca persino la sua crudeltà mentale nei confronti degli amici e di quanti gli stavano vicino. Il fatto è che si convinceva che «un amico capisce e perdona», con gli “estranei” invece bisogna essere ineccepibili. Una volta a Roma sfuggì alla scorta e mi invitò a cena. Andammo con una vecchia “127” blu recuperata non so come e dove. Arrivò al giornale all’improvviso, senza telefonate o preavvisi: «Voi giornalisti siete incapaci di tenere un segreto, quindi nell’interesse tuo è meglio che non ti ho detto nulla». Già, non aveva una grande considerazione per la categoria. Coi cronisti teneva un rapporto formale, ma in ufficio si era fatto mettere un videocitofono per selezionare le richieste provenienti da quelli che – senza spocchia, per carità – qualche volta chiamava “cazzari”. Era proprio difficile avere a che fare con Falcone. Bisognava proprio volergli un gran bene per conviverci. Una volta, era dicembre ’91, mi aveva promesso un’intervista per un settimanale. Dopo numerosi rinvii gli feci presente che eravamo arrivati all’ultimo giorno utile. «A proposito – disse con una faccia tosta senza eguali – dobbiamo rinviare a dopo Natale, perchè domani mattina parto». Mi si gelò il sangue nelle vene, perchè sapevo che il giornale aspettava l’intervista per chiudere il numero. Glielo dissi, ma in modo tale che si immedesimò nella mia angoscia. E allora concesse: «Vabbè, stasera non è possibile perchè ho un appuntamento, vieni domani mattina». «A che ora, Giovanni?». «Alle cinque e ti faccio trovare il caffè». «Alle cinque?». «E’ troppo presto? Non è possibile altra soluzione perchè alle 7,30 parte l’aereo. Altrimenti ci vediamo quando torno». Andai, ovviamente, alle 5 e mi toccò seguirlo fino in aeroporto. Prima di salutarmi mi disse: «Ovviamente mi farai avere il giornale e se il pezzo non è buono sono cavoli tuoi».

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Mi manca la sua capacità di piegare l’orgoglio alla ragion di Stato. Non deve essere stato facile, per lui propenso a far valere il suo punto di vista, anteporre l’interesse delle Istituzioni, la difesa dello Stato alle ragioni personali, che pure erano sacrosante. Non scorderò mai la sera che lo sorpresi in ufficio, a Palermo, mentre raccoglieva le sue cose per trasferirsi a Roma. La sua stanza era irriconoscibile, gli scatoloni affastellati al centro, le mensole e le vetrine delle librerie già svuotate. Lui indossava una tuta grigia con la scritta “FBI” sul petto e sulle spalle. Mi fece entrare e continuò a selezionare le carte da portare e quelle da lasciare. Parlò dei contrasti appena avuti, col procuratore Giammanco e con l’ufficio, in relazione all’ordinanza sui cosiddetti “delitti politici” che avrebbe preferito non firmare, non condividendone l’impostazione. «Allora perchè la firmi?», gli chiesi. E lui: «Non si può sempre dire di no. A furia di litigare penseranno che il mio è solo “malocarattere”. E ciò non aiuta la comprensione dell’intera vicenda, anzi genera confusione». Questo era Falcone: un uomo capace di anteporre l’interesse comune alle scelte personali. Questo mi manca, in un panorama popolato da mediocri che si credono il sale della terra.

Dal mensile I love Sicilia del maggio 2007

Tags: Antonio Montinaro · capaci · cosa nostra · francesca morvillo · giovanni falcone · mafia · rocco di cillo · strage · vito schifani

Pubblicato il 23 Maggio 2012, 09:11
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