Cesare non morì - Live Sicilia

Cesare non morì

Il rito della fine di un film è un'esperienza comune. Andiamo via dalla sala appena illuminata, commentiamo, discutiamo. Ma cosa accade quando i personaggi della pellicola  continuano a esistere? (nella foto Aldo Sarullo con i fratelli Taviani)

William Shakespeare in siciliano, in napoletano, in pugliese. Si tratta dell’evento cinematografico che, ad opera di Paolo e Vittorio Taviani, ha dato di recente all’Italia il nuovo prestigio dell’Orso d’oro del Festival di Berlino ed è stato premiato anche con il David di Donatello. Il film, tratto dal “Giulio Cesare” del drammaturgo inglese e girato nel penitenziario di Rebibbia, a Roma, ha avuto come titolo “Cesare deve morire”. Interpreti ne sono stati alcuni detenuti, tutti ristretti per lunghe pene detentive e un paio all’ergastolo. Ne scrivo perché mi sono occupato del rapporto con i registi in vista della presentazione del film nell’aula Kock del Senato, a Palazzo Madama, ma non ne scriverei se non fosse accaduto un fatto che merita il racconto, perché sia condiviso dai lettori. Non entro, quindi, nel merito di un film che, bellissimo, andrebbe visto, ma devo richiamare l’attenzione sulla circostanza logistica e antropologica che ha visto i detenuti esprimersi nei rispettivi dialetti, inserendo anche proprie considerazioni e muovendosi nei luoghi in cui vivono da reclusi.

Tutti abbiamo, nel personale patrimonio d’esperienze, il rito inconsapevole che segue alla fine della proiezione di un film. Si accendono le luci, ci si alza, ci si avvia commentando, si pensa alle attività successive, la cena, un locale, la nanna. I personaggi rimangono dentro la storia del film e gli interpreti chissà che in che cosa saranno occupati; di essi, se ci piacciono, attenderemo il prossimo film. Per “Cesare deve morire” non è andata così. Finita la proiezione mi sono alzato, ho iniziato il naturale, doveroso e piacevole scambio di opinioni con i fratelli Taviani, ma… Ma è accaduto che in me, e sono certo anche in molti altri, il rito d’uscita s’era frantumato. E’ accaduto che, con un senso di malessere innaturale, s’era formata nell’anima una indebita manchevolezza: nessuno di noi, uscendo dalla sala, avrebbe potuto credere tutto finito, finito per tutti. Sappiamo infatti che i personaggi di ogni film restano nel film.

Non sapevo, invece, che quelli visti l’altra sera sullo schermo, poiché erano soprattutto interpreti che non falsificavano sé stessi per divenire personaggi, non modificavano il proprio linguaggio, si muovevano nei luoghi di ogni giorno e cioè il carcere, in definitiva quegli “attori”, contrariamente al rito di fine film, erano rimasti nello scafandro della propria identità e tra quelle sbarre che, sino a pochi secondi prima ci apparivano scenografia, cioè finzione. La loro vita era rimasta là dove per noi spettatori era finito il film. E nel film Cesare era morto. Per loro, invece, era ancora in prigione. E noi, restituiti alla vita di fuori, ci sentimmo incolpevolmente debitori di un rito d’uscita andato a male.


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