Il primo segnale |e l'input di Mannino - Live Sicilia

Il primo segnale |e l’input di Mannino

Comincia oggi un viaggio attraverso uno dei misteri italiani: la presunta trattativa fra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni italiane. Ecco la ricostruzione, attraverso atti giudiziari, delle pagine più scure della storia del Paese che attraversa il passaggio fra la prima e la seconda repubblica.

La trattativa - 1
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È il 30 gennaio del 1992. A Roma la Cassazione pronuncia una sentenza storica. Le condanne inflitte nel primo maxi processo a Cosa Nostra, quello istruito dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sono confermate anche nel terzo grado di giudizio: centinaia di ergastoli per i principali boss mafiosi diventano quindi definitivi. Cosa Nostra inizia a meditare vendette nei confronti dei politici che “non hanno mantenuto le promesse”. Anni dopo, il pentito Leonardo Messina affermerà che “ci furono delle manovre per cercare di aggiustare il maxi processo”. Manovre che vennero evidentemente disinnescate.

Per la prima volta infatti a presiedere la prima sezione della Cassazione non c’è il giudice Corrado Carnevale, soprannominato “l’ammazzasentenze” per il gran numero di verdetti di colpevolezza annullati in carriera. Su input di Giovanni Falcone, allora direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, il guardasigilli Claudio Martelli fa in modo che i presidenti di sezione della suprema corte si alternino nei procedimenti di mafia.

Passano poche settimane e il 12 marzo l’eurodeputato della Democrazia cristiana, nonché ex sindaco di Palermo, Salvo Lima viene assassinato a Mondello. Nella sentenza del processo di primo grado contro Giulio Andreotti si legge che “dagli elementi di prova acquisiti si desume che l’onorevole Lima aveva instaurato un rapporto di stabile collaborazione con Cosa Nostra”. Secondo gli inquirenti che oggi indagano sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra, l’omicidio Lima è il primo, evidente, segnale che la mafia lancia ai vecchi referenti politici, colpevoli di non aver saputo “aggiustare” il maxi processo.

Nella sua casa romana di via san Sebastianello Vito Ciancimino ascolta al telegiornale la notizia dell’assasinio di Lima ed entra nel panico. Ai figli dice che il prossimo potrebbe essere lui. Non ritiene neanche di tornare a Palermo per i funerali, ma rimane a Roma e invia le condoglianze con il figlio Massimo. Quattro giorni dopo l’omicidio Lima, l’allora  capo della polizia, Vincenzo Parisi, scrive in una nota riservata che secondo una fonte confidenziale “sono state rivolte minacce di morte contro il signor presidente del Consiglio (all’epoca Giulio Andreotti, ndr) e i ministri Vizzini e Mannino…per marzo–luglio prevista campagna terroristica contro esponenti Dc, Psi et Pds … Strategia comprendente anche episodi stragisti”.

Il 20 marzo il ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti interviene davanti la commissione affari costituzionali del Senato. “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione dell’istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo – dice Scotti – Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità. Io me ne assumo tutta la responsabilità. Siamo in un paese di misteri e io non intendo gestire il Ministero degli Interni con una condizione di silenzio e di misteri e senza mettere su carta le cose che si fanno”. Per il presidente Andreotti però l’allarme lanciato da Scotti è soltanto “una patacca”.

Nello stesso periodo – secondo i magistrati palermitani – l’ex ministro democristiano Calogero Mannino inizia a temere per la sua vita. “Dopo l’omicidio di Salvo Lima, incontrando a Montecitorio Calogero Mannino mi disse: ‘Il prossimo sono ioi”, ha raccontato Nicola Mancino ai magistrati palermitani in un interrogatorio del 6 dicembre 2011. “Io ero più preoccupato per la vita dei magistrati antimafia” ha replicato Mannino, che oggi è indagato perché avrebbe dato l’input iniziale alla trattativa con Cosa nostra.

Temendo per la sua vita, Mannino avrebbe incontrato – sempre secondo gli inquirenti –  il capo del Ros, Antonio Subranni, e l’allora numero tre del Sisde, Bruno Cointrada, chiedendo di aprire un “dialogo” con Cosa Nostra per capire cosa volessero i boss e salvarsi quindi la vita. Il collaboratore Giovanni Brusca ha raccontato che, in effetti, il commando di morte per Mannino si era già attivato sia a Sciacca che a Palermo tra l’aprile e il maggio del 1992. Sempre in quella primavera torna a volare il “Corvo di Palermo”, l’anonimo estensore di missive al veleno per i magistrati palermitani. Questa volta il corvo racconta addirittura di un duplice incontro tra il superboss Totò Riina e lo stesso Mannino in una chiesa di San Giuseppe Jato.


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