Ma non fatene un santino - Live Sicilia

Ma non fatene un santino

Se il martirio del parroco di Brancaccio è un evento profetico è necessario rinunciare all'avvilente e vuota corsa all'aureola sul viso sorridente. E porsi delle domande sulle contraddizioni di questa città e della sua Chiesa.

Da bambino quando sedevo in chiesa mi domandavo sempre se i santi che stavano in cima agli altari non si stancassero di stare tutto il giorno in piedi e soprattutto lontano dalla gente, anche perché vedevo le difficoltà delle vecchiette, alcune curvate dal peso degli anni, ad alzare il capo per “lanciare” un bacio verso il santo protettore. E così mi chiedevo perché il parroco non si decidesse a portare san Giuseppe e santa Rita in mezzo ai comuni mortali, nella certezza che la cosa avrebbe fatto piacere ai santi ma anche alle vecchiette della parrocchia. Col tempo compresi che il Popolo di Dio a volte i “suoi” santi se li tiene ben stretti, non li confina su altari lontani e polverosi, ma ama stringerli e baciarli, sentirli “a portata di mano”. Così penso a don Bosco, che all’anagrafe dei santi risulta come san Giovanni Bosco, ma che tutti ostinatamente continuano a chiamare don Bosco proprio come se fosse ancora per le strade di Torino a raccogliere ragazzini lavoratori.

Probabilmente la stessa cosa accadrà per Padre Pino Puglisi. Difficilmente lo sentiremo chiamare “il beato Giuseppe Puglisi”, per molti, specie per quelli che l’hanno conosciuto, egli rimarrà semplicemente Padre Puglisi. Eppure da ieri, cioè dal momento in cui il riconoscimento del martirio ha spianato la strada verso gli onori degli altari, è scattata una strana corsa all’aureola. Nell’aria, nei commenti di giornalisti, politici e uomini di chiesa l’attenzione si è subito riversata sulla prossima beatificazione, a discapito, e dire che la notizia era quella, del riconoscimento del martirio “in odio alla fede”. C’è il rischio concreto che Padre Puglisi diventi l’ennesimo “santino”, magari da collezione, e che la beatificazione venga solo vissuta come il passaggio propedeutico alla ben più ambita canonizzazione. Si sa la gloria degli altari spesso fa dimenticare la polvere del martirio.

È invece auspicabile che questo felice evento ecclesiale sia un momento di riflessione per i cristiani di Palermo. Padre Puglisi, che in vita a chi scherzosamente lo chiamava “monsignore” rispondeva sonoramente “tuo padre!”, sarebbe più felice di essere semplicemente chiamato Padre Pino, senza l’altisonante “beato”, e sarebbe ancora più contento di sapere che questo momento è diventato “kaiors”, tempo opportuno, per la Chiesa e la città di Palermo. Nella sua etimologia il martirio è testimonianza, testimonianza di fede che, come tale, deve essere raccolta. La domanda allora che bisogna porsi è: che cosa lascia alla Chiesa di Palermo, ma anche alla Palermo laica, la testimonianza di Padre Puglisi?

È una domanda radicale e urgente questa, che mette in rilievo le contraddizioni del nostro personalissimo quotidiano ma anche quelle di una chiesa che troppo spesso presenta due volti: quello del martirio di Padre Puglisi e quello dei preti che di notte visitano i boss, quello del maglione bucato di Padre Pino e quello degli affari poco chiari di certe curie, quello delle parole sapienti e cariche di cuore del pretino di periferia e quello delle stanche e moraleggianti omelie di alcuni pulpiti. Se il martirio del parroco di Brancaccio è un evento profetico è necessario rinunciare all’avvilente e vuota corsa all’aureola sul viso sorridente di Padre Puglisi, ma è urgente cogliere il kairos, l’accadere “qui-e-ora” della volontà di Dio per una persona, per una chiesa locale o per tutta la comunità ecclesiale.

Saper riconoscere il kairos, significa anche saper operare una scelta, una scelta che per la Chiesa di Palermo è fatta di impegno per l’attuazione del Concilio e per la nuova evangelizzazione, di scelta preferenziale dei poveri e di lavoro per la promozione umana, di cambiamento della prassi sacramentale. Una scelta chiara anche davanti al fenomeno mafioso. Col fenomeno mafioso, con la mentalità mafiosa la chiesa deve misurare la capacità che l’evento Cristo possiede di liberare l’essere umano. La beatificazione di Padre Puglisi è l’occasione giusta per la Chiesa di dimostrare la forza liberante dell’evento-Cristo rispetto alla schiavitù mafiosa. Tertulliano, un padre della Chiesa, diceva che “semen est sanguis christianorum”, il sangue (dei martiri) è seme di cristiani. C’è da augurarsi che il sangue versato a piazzale Anita Garibaldi sia seme di nuovi cristiani, di una chiesa rinnovata dal lavacro nel sangue del prete di Brancaccio.

 


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