"Non smettiamo di coltivare | l'albero della legalità" - Live Sicilia

“Non smettiamo di coltivare | l’albero della legalità”

Festival della legalità di Castelvetrano. A confronto, Leonardo Guarnotta e Giancarlo Licata. Due voci, una strada: non smettiamo di lottare.

Guarnotta e Licata
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Guarda ai giovani e un sorriso gli rischiara il volto: “E’ come se il sangue di Giovanni e Paolo avesse concimato le radici di un albero che non dobbiamo mai smettere di coltivare”. Leonardo Guarnotta, al fianco di Falcone, Borsellino e Giuseppe Di Lello nel pool antimafia che istruì il primo maxiprocesso a Cosa nostra, fa leva sul potere invincibile della gioventù mentre si rivolge alla platea di piazza Empedocle a Marinella di Selinunte dove è in corso il “Festival della Legalità in Tour”. Sul palco, insieme a lui, il direttore di TGR Mediterraneo Giancarlo Licata, autore del documentario “1367 – La tela strappata” trasmesso, nel ventennale della strage di via D’Amelio, in un territorio “difficile” che continua ad assicurare protezione e copertura al superlatitante Matteo Messina Denaro. E proprio su un ipotetico scacco finale a Cosa nostra, Guarnotta appare scettico: “Siamo ben lontani dalla fine della mafia auspicata da Falcone, se ancora oggi ci sono commercianti che pagano il pizzo”.

Le parole del presidente del Tribunale di Palermo, particolarmente impegnato sul fronte della sensibilizzazione nelle scuole, oscillano tra passato, presente e futuro. “Nel 1983, ai tempi del maxiprocesso – ricorda – ha avuto inizio una primavera giudiziaria unica e irripetibile. Gli uomini delle forze dell’ordine e gli stessi prefetti dell’epoca sostenevano che la mafia non esisteva, che la cosiddetta “piovra” era un’invenzione”. E’ a Rocco Chinnici che si deve, scorrendo il memoriale di Guarnotta, la grande intuizione della lotta alla mafia. E da lì, la necessità di combatterla sia sul fronte repressivo, attraverso l’operato delle forze dell’ordine e dei magistrati, che preventivo facendo leva sui giovani. A fare da sfondo al dibattito a tre voci che ha coinvolto anche Filippo Landi, attuale corrispondente Rai da Gerusalemme, un documentario prodotto dalla Novantacento in collaborazione con Rai Teche in cui, attraverso il montaggio di servizi originali commentati dai conduttori dell’epoca, vengono ricostruiti in maniera capillare i fatti che si sono succeduti nelle 1367 ore che separarono Capaci da via D’Amelio, con l’obiettivo di trasformare la cronaca in storia.

La rivolta della società civile che si organizza e prende il posto delle Istituzioni, lo scioglimento delle Camere, la fuga di Cossiga che abbandona il Quirinale sbattendo la porta, la nascita delle prime associazioni antimafia dopo che il Comitato dei Lenzuoli, nel vuoto cosmico lasciato dallo Stato, prende in mano le redini del Paese assurgendo al ruolo di interlocutore politico. E poi ancora l’isolamento di Borsellino dopo la morte di Falcone, la scomparsa dell’agenda rossa, la trattativa tra Stato e mafia di cui Borsellino venne a conoscenza il 28 giugno 1992. “Che la trattativa ci fu – rileva Guarnotta – lo dice la sentenza della Corte d’Assise di Firenze che ha condannato il boss Francesco Tagliavia. Io credo che, opponendosi al patto oscuro Stato-mafia, Borsellino abbia accelerato l’esecuzione di una condanna a morte già emessa. D’altronde, Cosa nostra non avrebbe avuto avuto alcun ritorno da una seconda strage e, per di più, a così breve distanza dall’esplosione delle coscienze seguita all’attentato a Falcone. La verità è che nel ’92 è definitivamente tramontata la Prima Repubblica, un pò per i fatti connessi a Tangentopoli, un pò per quanto accaduto a Palermo”.


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