Palermo mia, non ti conosco - Live Sicilia

Palermo mia, non ti conosco

Lo scrittore tre anni fa si augurò che la città fosse rasa al suolo dal napalm. Oggi dice: "Orlando è stato il migliore tra i politici cittadini, ma i ritorni non sono mai esaltanti. La verità su Borsellino? Sto dalla parte dei pm. Napolitano rischia di essere il peggiore Capo dello Stato di sempre". (foto di Monica Cillario)

Intervista a Fulvio Abbate
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Una faglia, una faglia lunga e profonda che si apre e inghiotte la città; o una catastrofe, biblica, per mano di un dio iroso e potente; o, ancora, un collasso da città maya o da Isola di Pasqua: sono tante le declinazioni possibili – variando anagrafe, inclinazioni e studi – di un’idea che tutti i palermitani, almeno una volta nella vita, hanno avuto: distruggere Palermo.

L’idea affiora ogni mattina in cui si esce di casa e si poggia il piede su un marciapiede sudicio. E ci sono giorni in cui né il sole fra i platani, né il mare luccicante, né il profumo di un pitosforo fiorito riescono, come sono soliti ruffianamente fare, a cancellarla.

Provo a parlarne con Fulvio Abbate, scrittore, intellettuale e critico d’arte (nonché, forse suo malgrado, giornalista) che, dall’emittente da lui ideata, prodotta e condotta: “Teledurruti (una televisione monolocale)” che prende il nome dall’anarchico spagnolo Buenaventura Durruti, lanciò qualche anno fa, due insidiosissime domande, due ami puntuti cui volentieri abbocco.

Sono passati tre anni da quando lei si chiedeva se è possibile odiare la propria terra e se i palermitani (o in genere i Siciliani) fossero così per colpa loro o qualcuno li avesse fatti diventare così: ha trovato una risposta? e quelle domande restano attuali, ferme – come lei disse – come la ballerina sul coperchio delle tabacchiere?
“Io sono palermitano. Ho vissuto a Palermo da zero a ventisei anni, a Palermo è avvenuta la mia formazione e a Palermo ho vissuto quel momento di crescita civile che è stato il giornale “L’ora”. Il mio primo libro, (Zero Maggio a Palermo, Baldini Castoldi Dalai editore 1990), è stato un romanzo di formazione ambientato a Palermo che era la protagonista. Detto questo, ho scelto di andare via nel 1983, in piena guerra di mafia e non mi sono mai voltato indietro, non ho mai neanche pensato di tornare a viverci. Ho un rapporto meraviglioso con la memoria e con i ricordi e il mio prossimo romanzo sarà sull’infanzia che ho trascorso a Palermo, ma oggi mi sento estraneo alla città e questo mi dispiace perché invidio chi ha un paese a cui tornare, di tanto in tanto”.

L’odio è un sentimento d’altri tempi, evoca qualcosa di cavalleresco, di nobile persino. Ma si può odiare qualcosa che non offre una superficie solida, visibile, ma piuttosto gommosa, vischiosa, anche seduttiva se vogliamo?
“La seduzione che Palermo esercita riguarda il gringo, chi viene da fuori, non chi vi abita, è nato a Palermo. Per me la sensazione è diversa. Io odio la claustrofobia: quando non lavoravo a Palermo – io non ho mai lavorato, sono orgoglioso di non aver lavorato – ho incontrato delle ….. pessime persone, non trovo altra definizione, che impedivano la crescita, l’apertura, per salvaguardare i loro rapporti di potere, le loro relazioni all’interno di un sistema culturale. Anche Roma, che conosco e di cui sono …. esegeta, ho anche scritto una Guida non conformista alla città (Cooper 2007), è così: ma lì hai la sensazione di poter fuggire, mentre a Palermo vedi sempre quelle facce, per cui puoi sentire solo (esita)…..disprezzo.
C’è stato un momento in cui sembrava che ci fossero dei varchi, si potesse esprimere una certa vivacità, un momento “antagonista”. Parlo degli anni ’70. Poi questa vivacità si è spenta, non saprei dire quando con esattezza, alla fine degli anni ’70, il 1978, forse. Quello che mi chiedo è: come fanno un milione di persone a viverci?”.

Che giudizio dà di questa nuova stagione orlandiana?
“Giudizio, nessuno. Senza dubbio Orlando è stato il migliore fra i politici cittadini. Ne ho parlato nel romanzo “Il rosa e il nero”. Non dimentico che grazie al lui il centro storico di Palermo è diventato un luogo in cui andare a passeggiare, mentre prima non si osava avventurarvisi, ma i ritorni non sono mai esaltanti. Non so cosa sta facendo o cosa potrà fare: non ci sono soldi e la città è refrattaria. I gruppi che fanno pressione non lo fanno – come in altre città – legittimamente: fanno pressione mafiosa”.

Restiamo sull’odio: non le pare significativo che, anche nella sua esperienza, la libertà di parola si fermi laddove comincia un sentimento che impone una nettezza, una chiarezza. Se non si può dire chi odiamo e perché, che senso ha la libertà di opinione e di parola?
“La libertà di opinione non c’è: te la prendi. E paghi un prezzo. I più fragili diventano eroi. Io volevo scrivere un articolo su Ingrid Betancourt in cui dicevo: “Ingrid Betancourt è una stronza”. Non l’ho potuto scrivere né sul “l’Unità” né su “Il Foglio”. A volte mi sono chiesto: perché io? La risposta che mi sono dato è questa: perché altri non avevano coraggio. Non c’è coraggio, nei giornali né altrove: al direttore di un giornale non va di incontrare ad un party a Villa Igea il direttore di un altro giornale o qualcun altro con cui ha delle relazioni che gli venga a dire: “sul tuo giornale hanno parlato male di me”. Esistono della relazioni che vanno salvaguardate. Bisogna controllare le opinioni. Quando ero al “l’Unità” non potevo dire che Berlinguer era un uomo fallimentare. Io ho potuto dire tutto, dire chi io sono soltanto a Teledurruti, un luogo senza mediazione: solo ora sono finalmente un uomo libero”.

Palermo. In questi giorni è al centro dell’attenzione mediatica per due casi: Lombardo e i conti; Napolitano e le intercettazioni. Lombardo ha evocato il rischio di una “macelleria sociale”, e ha detto chiaramente che le molte migliaia di dipendenti superflui – regionali, forestali, etc – non può e non vuole licenziarli; e se fosse questa la bomba? Se fossero i tagli, o la spending review di Monti il napalm che distrugge ogni forma di vita, ma da cui – forse – può un giorno rinascere qualcosa?
“Il sistema clientelare vive di assunzioni. Mi ricordo che, dopo una campagna elettorale di tanti fa, per la strada vedevi ragazzi con le facce dell’Uditore, della Noce, del Motel Agip che portavano una fascia bianca sul braccio. Erano vigili urbani tirocinanti. Erano tanti che non c’erano le divise per tutti: erano troppi! Oppure mi è accaduto di dover portare una zia in ospedale. C’era un medico che rastrellava pazienti anziani per dirottarli in case di riposo dalle quali prendeva una “stecca”. Era un sistema. Se io penso che esiste questo e che nessuno – dal primario all’ultimo portantino – può essere toccato…… Basterebbe questo, che potessero essere toccati! sarebbe come se un aereo versasse sulla città il napalm di cui parlavo tre anni fa!”.

Verità su Borsellino: a volte sembra che a volerla siano solo i magistrati e i familiari. Se c’è un interesse per la verità e un dovere di verità “superiore”, chi deve farsene carico? Lo storico? Lo scrittore? Il giornalista? Il magistrato?
“Lo scrittore può dire: so, ma non ho le prove. Della verità deve farsi carico il giudice: io sto dalla parte dei magistrati di Palermo e dico anche che Napolitano, che è stato un pessimo Ministro degli Interni – fu lui che disse: “non siamo venuti qui ad aprire gli armadi” – ora garantisce un status quo sordido. Anche se fosse una sola famiglia, quella di Borsellino e non un’intera nazione a chiedere la verità, il tentativo per impedire l’utilizzazione, la pubblicazione, la divulgazione delle intercettazioni è inaccettabile. Napolitano, che sta per terminare il suo mandato, rischia di essere ricordato come uno dei peggiori presidenti della Repubblica”.


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