La Ragazza-Triste e il giudice - Live Sicilia

La Ragazza-Triste e il giudice

Dalla raccolta "La Scelta" (Novantacento, 2007) pubblichiamo un estratto del racconto scritto da Antonio Ingroia in memoria di Rita Atria, della quale oggi ricorre il ventennale della tragica scomparsa.

In ricordo di Rita Atria
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6 min di lettura

La prima volta che la vidi stava tutta raggomitolata sulla sedia. In quella stanza a piano terra del Palazzo di Giustizia. Così rannicchiata da mettere a disagio, da infondere insicurezza. Sembrava indifesa, tutta protesa a farsi piccola, ad essere protetta. Ma lei, la Ragazza-Triste, non dava l’impressione di sentirsi a disagio, era tranquilla, quasi rilassata. Aveva occhi grandi e quegli occhi me li trovai puntati addosso, con forza, con insistenza. Quando entrai nella stanza mi fissò, in silenzio e a lungo. Non era disposta a distogliere lo sguardo, uno sguardo intenso e interrogativo. Aspettativa. Aspettava di capire se poteva fidarsi di me. In tanti anni di silenzi, nel piccolo paese dove era nata, dove suo padre l’aveva allevata a pane e mafia, aveva imparato a diffidare di tutti e di tutto: dei nemici ma anche degli amici, dello Stato ma anche della Mafia. E chi era quell’uomo lì davanti che lei stava fissando per capire? Perché era entrato nella stanza senza neanche bussare? Era un uomo dello Stato o un mafioso? E, soprattutto, era uno di cui ci si poteva fidare o uno dei tanti infedeli? Non era per caso uno di quegli infedeli che avevano rovinato la sua terra infelice, quegli infedeli che erano stati capaci di rendere invincibile la mafia? Quelli che avevano trasformato un’organizzazione criminale come la mafia in qualcosa di più e di peggio che lei non sapeva esprimere, quella “Piovra”, così come tutti ormai la chiamavano in ogni parte del mondo. Quelli che avevano causato l’isolamento e la morte dei tanti uomini dello Stato e della mafia. Come suo padre e suo fratello. Quelli che avevano consegnato tanti siciliani all’impunità della mafia. Quelli che avevano fatto rassegnare tanti siciliani alla legge della vendetta, al farsi giustizia da sé. Come suo padre e suo fratello. Erano di Quelli il giovane con la barba che la guardava curioso, ma a disagio per il suo sguardo puntato addosso? Oppure era una persona perbene e lei stava cadendo, come sempre più spesso le accadeva, in una di quelle ossessioni che non la lasciavano più, da quando aveva viso suo padre e suo fratello uccisi come cani, vittime del tradimento degli amici dei loro amici?

Tutto questo affollava la mente della Ragazza-Triste mentre mi fissava con insistenza. E quei suoi pensieri sembravano affiorare come ombre da una lanterna magica, e così proiettarsi sul muro, inquietare le pareti della stanza, ammorbare l’aria, renderci tutti nervosi. Ricordo, come fosse ora, quegli attimi, lunghissimi, eterni. Eravamo sospesi, nel tempo e nello spazio. In attesa. Ma d’incanto il suo sguardo si sciolse. Da interrogativo e dubbioso diventò insieme comprensivo e rassicurato, quasi complice. L’attesa si era interrotta, d’improvviso com’era iniziata. Perché era intervenuto Lui, il Giudice, il Deus-Ex-Machina della sua vita. E pure della mia, del resto. Il Giudice era un uomo deciso ed esperto, sapeva come prendere le persone, come entrare in relazione con chiunque, portatore di una carica umana insostenibile, e perciò capace di vincere la peggiore diffidenza, la più coriacea scontrosità. Era il mio Capo. Ricordo bene il nostro primo incontro, qualche anno prima, quando entrai nel suo ufficio quasi intimorito per il confronto con un magistrato già così importante. Procuratore – iniziai – sono qui per il mio insediamento, quando crede che potrò iniziare il mio lavoro? E lui: ma scusa, collega – disse con tono grave – sembro forse tanto vecchio che mi dai del lei? E giù una grassa fragorosa risata che ruppe subito il ghiaccio e mi rivelò una parte a me nascosta di quell’uomo-mito: era un Giudice, ma era soprattutto un Uomo, un Uomo-Allegro. Dotato di una risata che gli illuminava il viso. E quando rideva, la sua allegria, che era allegria e freschezza d’animo, voglia di vivere, lo prendeva tutto, fino a scuoterlo nel profondo. I suoi baffi ridevano, il suo naso rideva, i suoi occhi ridevano, felici. La sua anima sorrideva. Ecco, era stata ancora una volta la sua risata, improvvisa e contagiosa, ad avere rotto il silenzio, ad avere rassicurato la Ragazza-Triste. Una risata prima delle spiegazioni, prima di spiegare a lei chi ero io e a me chi era lei. Presentazioni brevi. Era lui che mi aveva chiamato, anzi che ci aveva chiamato. Perché, subito dopo, alla spicciolata arrivarono gli altri, i miei colleghi, a riempire la stanza di varia umanità, uomini e donne. Tutti attorno a lui. Eravamo giovanissimi e apprendisti. E lui il nostro Maestro. Tutti attorno a lui come pulcini attorno alla chioccia. Lui aveva questo atteggiamento paterno. E ce lo aveva soprattutto con lei, la Ragazza-Triste, che di anni ne aveva sedici, era proprio una ragazzina, e di un padre aveva bisogno perché il suo lo avevano ammazzato, una notte d’inverno. Quando la stanza si riempì, toccò alle brevi presentazioni. Lui fu rapido perché, pur essendo un grande affabulatore, sapeva essere essenziale quando bisognava lavorare. Ci comunicò in breve la triste storia della ragazza: vita di paese in una famiglia di mafia, tormentata da una lunga faida che aveva lasciato un un’orribile scia di sangue. Un padre ed un fratello uccisi, la sia voglia di reazione, la scelta difficile e sofferta di una ragazza di paese ti mafia di collaborare con la giustizia, nella quale era stata aiutata dalla cognata, la moglie del fratello ucciso, che aveva pure lei deciso di raccontare tutto a lui. La responsabilità che gravava sulle spalle di una piccola procura di provincia come la nostra, che si ritrovava a dover gestire una vicenda giudiziaria così pesante. Ma anche la sua simpatica ostinazione: – Ne abbiamo viste di peggio, concluse. E intanto una scelta coraggiosa: del caso si sarebbe occupato lui in prima persona ma si sarebbe fatto affiancare dall’unica donna del nostro gruppo, meglio che quel primo caso di collaborazione tutta “al femminile” con la giustizia venisse gestito da una collega. Fra donne si sarebbero intese meglio. Un’altra sorpresa: quando si scherzava, rivendicava il proprio maschilismo, ironizzando con sarcasmo sulle capacità delle donne – magari – di portare la macchina, ma al momento opportuno, su una cosa così delicata, dimostrava una reale fiducia sulle capacità professionali delle donne. E lo dimostrò ancora, e spesso, negli anni successivi. Insomma, diceva di essere maschilista ed invece non lo era per nulla. Così come diceva di essere di destra, ma poi restava interdetto, e lo confessava apertamente canzonando se stesso, quando si accorgeva fin troppo spesso d’accordo con persone di sinistra. Com’è possibile? – mi diceva – mi sento di destra e i miei migliori amici sono tutti di sinistra? Mi devo preoccupare? E giù risate a non finire.

Ma ora a lavorare! Andiamo a travagghiari, diceva con la sua inconfondibile e naturale inflessione dialettale che nessuno di noi sapeva imitare. E giù risate. Quelle risate che incorniciavano il suo naso importante, importante ed allegro. Il viso gli si allargava. E noi eravamo tutti più contenti di tornare a lavorare. Ed erano i momenti in cui perfino la Ragazza-Triste riusciva a diventare allegra pure lei, rideva, sembrava felice. Con quegli occhi vivaci che per un attimo cancellavano quel velo di tristezza che nascondeva il suo sguardo. (…)


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