Fine pena? Mai - Live Sicilia

Fine pena? Mai

Una settimana a leggere di carcere. A raccogliere parole e storie, mentre fa caldo. Ne viene fuori un collage. Che va bene per tutti.

Una settimana a leggere e a sentire di carcere. Una settimana a provare, a riprovare. A scrivere appunti nel vento di Facebook, dopo avere sfogliato pagine di giornale. E sono riemersi fantasmi. Nella cantina di ogni cronista si muovono spettri che attendono un cenno per tornare alla luce. Perché il carcere, la detenzione, l’orrore? Perché parlarne ancora? Insistere – consiglia la prudenza – sarebbe come mettere il mare in un secchiello, o levigare Monte Pellegrino col palmo della mano.
La cella non è eguale per tutti. Esiste la cella come stato mentale, nell’immaginazione di chi pensa: ben ti sta. Sei recluso perché te lo sei meritato. La sofferenza che provi è una punizione dovuta. Poi c’è la cella che è elemento fisico, duro e crudele. Chi la sperimenta sa che il concetto di colpa e di innocenza nemmeno lambisce l’irrazionalità, la putrefazione delle prigioni italiane e dunque siciliane. L’istituto penitenziario complessivamente inteso non risponde più, nella sua prassi, ad alcuna logica. Non distingue tra peccato e redenzione, né tra il peso di un errore e la leggerezza della sua assenza. Costringe ristretti e ristretti, nel mucchio. E, insieme a loro, nel pozzo della stessa disperazione, direttori e agenti di polizia penitenziaria.
Fa caldo a Palermo. Dice che c’è nell’aria un’altra dannazione metereologica con un nome da mito greco. Chissà il fresco all’Ucciardone o al Pagliarelli. Una settimana a leggere e sentire di carcere. Eccola, in sintesi.

Si chiamava Roberto
“Roberto Pellicano dal carcere dell’Ucciardone scriveva preghiere, con scarna grammatica e abbondante dolore.  Le scriveva su un foglio a quadretti e le imbustava. Destinazione ignota. Roberto scriveva: “Sono un ex tossico, ma me ne sono pentito! Ero un tossico e non mi vergogno a dirlo! Ma prego Dio che mi fa guarire di questa maledetta malattia! Sono stanco di questa vita di merda che facevo. Quindi ti chiedo Dio di farmi uscire di questa maledetta droga! Dio io ti prometto che farò di tutto per riuscire a smettere! Ma ti chiedo solo di aiutarmi. Dio aiutami: Roberto”. E’ uscito, alla fine, ma non come aveva chiesto.
Roberto Pellicano era sieropositivo. Era un ladro di piccole cose, furti minuti che gli servivano per acquistare la roba. La sua storia misera è racchiusa in poche righe e in qualche documento spiegazzato. Il due luglio scorso il furto di due teli da mare, di accessori balneari e creme da spiaggia a Capaci. L’arresto, il processo e la condanna a otto mesi, visto che l’imputato è recidivo . Due istanze di scarcerazione per motivi di salute non esaudite. La prima – parrebbe – per il rifiuto di farsi visitare opposto da Roberto.  La morte dietro le sbarre, ai primi dello scorso dicembre”.

Fine pena. Mai?
L’obiezione, la radicale obiezione, la tremenda obiezione. Perché ci vorrebbe l’ergastolo? Perché – dicono – non ci pensi ai parenti delle vittime? Si confondono i piani. La giustizia non è vendetta privata: e non c’entra l’essere buoni, o saggi, o duri, o inflessibili. Nessuna vita immolata tra le sbarre è il contenuto adatto per riempire il contenitore di un’altra che è stata scempiata. La pena di un colpevole non ha mai sollevato dal dolore i familiari di un innocente strappato. Anche la morte per morte è un tragico abbaglio. L’espiazione del reo non compensa il sacrificio della vittima. La giustizia è tale perché rompe il cerchio. Quando ha fede e speranza nel domani. Quando è il contrario della vendetta. Quando abolisce la parola “Mai”.

La madre col bimbo tra le sbarre
“E’ iniziata dalle carceri di Forlì, Lanciano, Cassino, Genova Marassi, Sulmona, Messina, la tradizionale visita delle carceri nel periodo estivo da parte dell’associazione Antigone. Trenta volontari dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione, autorizzati dal Ministero della giustizia, entreranno negli istituti di pena per tutto il mese di agosto con l’obiettivo di evidenziare le maggiori criticità, monitorare le condizioni di vita, gli spazi a disposizione, lo stato delle strutture. E’ il carcere di Messina, secondo l’Osservatorio, a rappresentare una delle situazione peggiori: “Le condizioni di molti detenuti possono essere classificate, secondo i parametri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tortura”. I dati ufficiali del Ministero fissano la capienza a 330 posti, ma a causa delle molte parti chiuse, a detta della direzione – sottolinea Antigone – la capienza è di 173 posti, per cui con 344 detenuti presenti, il sovraffollamento ammonta a circa il 200%. E’ inoltre presente nell’istituto una detenuta madre, il cui figlio, di due anni e mezzo, vive da un anno in carcere. Inoltre in 3 celle del centro clinico ai detenuti tocca a testa uno spazio inferiore ai 3 metri quadri: in una 11 detenuti in 19 mq (1,72 mq a testa), in un’altra 8 detenuti in 15,8 mq (1,97 mq a testa), nell’ultima 11 detenuti condividono uno spazio di 19 mq (1,72 mq a testa). “Per stare in piedi – rilevano i volontari dell’associazione – bisogna fare i turni”. Le visite dei volontari di Antigone proseguiranno agli istituti di Augusta, Livorno, Viterbo, Cagliari, Lucca, Savona, Pisa, Gorgona, Barcellona Pozzo di Gotto, Pontedecimo, Chiavari, Ascoli Piceno, Pescara, Catania Bicocca. L’intento è di mantenere alta l’attenzione verso il problema carceri e sollecitare riforme che decongestionino i 206 istituti che oggi contengono 21 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari”.

A Bicocca non si respira
“L’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone ha visitato, nel tradizionale giro di visite agli istituti penitenziari di agosto, la casa circondariale di Catania ‘Bicocca’ rilevando un tasso di affollamento del 196%. La struttura, che risale al 1987, ospita 245 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 124 unità. “Il forte sovraffollamento – spiega Antigone – rappresenta il principale nodo problematico dell’ Istituto”.
“Le celle delle quattro sezioni – prosegue l’Osservatorio – ospitano fino a 3 detenuti (alloggiati in letto a castello a 3 piani): siamo quindi al limite delle dimensioni minime previste dalla Corte europea dei diritti umani”. La struttura risulta fatiscente con pareti scostate e ammuffite, le docce sono al piano e sono 5 per una media di 60 detenuti. Durante l’estate spesso l’erogazione dell’acqua si interrompe”.
“Le porte delle celle hanno una piccola apertura per la ventilazione e quindi, durante l’estate, ci sono problemi di areazione e la temperature delle celle a volte è insopportabile proprio quando, sospese le attività scolastiche, i detenuti stanno chiusi per 19 ore al giorno”. Nell’istituto sono accolti anche detenuti in regime di 41 bis che convivono con persone dallo spessore e dalla storia criminale decisamente inferiore, per le quali la convivenza con gli altri detenuti è molto difficile”.

Cartoline da San Vittore
“Il Foglio” di giovedì scorso ha ospitato una testimonianza. Scrive Antonio Simone, arrestato per un’indagine su presunti fondi neri della Fondazione Maugeri, “con accuse pesanti”, annota il redattore del giornale di Giuliano Ferrara. Riferisce Simone: “La carcerazione preventiva è un rimedio primitivo che produce una condizione personale tremenda, talvolta orribile. (…) Ma dove è andato a finire l’articolo 13 della Carta costituzionale, sempre invocata dai moralisti giustizialisti? Lì viene proclamata l’intangibilità della libertà personale, vietando ogni forma di violenza nei confronti dei detenuti, figuriamoci nei confronti di un presunti innocente in carcerazione preventiva, rinchiuso nelle fetide, maleodoranti patrie galere”. Eppure del problema nessuno si preoccupa “ed è inesistente – scrive Simone – sugli organi di stampa, dove invece abbondano pagine e pagine sulla situazione dei nostri amati cani”.

La gente perbene
Perché la gente perbene ama il carcere permale? Il sentimento del giusto non c’azzecca, direbbe un noto filosofo. La gente perbene ha bisogno che ci sia qualcuno da odiare, cui infliggere dolore, con l’alibi che sia giusto farlo. Non c’è meglio del carcere per figurare il ritratto di un’umanità separata da colpire. Non c’è meglio del “delinquente” per fungere da capro espiatorio, a dispetto della tortura e della presunzione d’innocenza. Poi, talvolta, qualcuno dei carnefici passa – per bizzarria della macchina giuridica – nella schiera delle vittime di atroce detenzione. E cambia idea. Troppo tardi.

Una settimana a leggere di sbarre, a respirarle. Forse un minimo collage di parole, più che un articolo coerente, abbozza meglio l’idea. Siete sempre convinti che non valga la pena di indignarsi e cambiare?


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