L'Opera dei Puppi - Live Sicilia

L’Opera dei Puppi

Le cripto-checche, i voti di castità, i dibattiti sul sesso, sulla rava e sulla fava. Solo che la Sicilia non è mai stata omofoba, ha avuto sempre un occhio di riguardo per (tutte) le necessità della carne. La sapete quella di Nenè Coccodè? (dal Foglio di sabato)

Crocetta e l'omofobia
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Rosario Crocetta ha promesso che se vince non farà più sesso, ecco: se non è voto di scambio questo… e cominciamo giusto con una battuta d’avanspettacolo perché il candidato dell’Udc-Pd alla presidenza della regione siciliana dopo solo tre uscite – oplà – è diventato una simpatica macchietta. Uscita numero uno: l’intemerata contro le cripto-checche del suo partito. Uscita numero due: la solenne promessa di cui sopra (per sposare la Sicilia e solo la Sicilia). Uscita numero tre: dichiararsi – lo ha fatto con Andrea Scanzi, sul Fatto – “incredibilmente autentico” perché, ha spiegato, “non capite i miei paradossi, trovate inconcepibile che metta in gioco la mia vita per il bene comune. Voi tendete alla teatralizzazione”.
Teatro a parte è lui che batte lingua nel dente mai cariato dell’omosessualità. Ne ha fatto una categoria politica, una mostruosità nel senso del mostrare, del mostrarsi e del mettere in mostra proprio quando il sindaco di Parigi, il sindaco di Berlino, il primo ministro belga, il ministro degli Esteri tedesco e il governatore della Puglia, in Italia, senza morbosità fanno il loro lavoro politico-amministrativo. E senza mai raccontare la rava e la fava del loro essere omosessuali.

Crocetta che promette di non fare più sesso offre a Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, l’occasione di leggerci dentro una denuncia contro la “forma modernissima di oppressione che è l’intrusione mediatica nella vita privata dei conosciuti e degli sconosciuti”. Ancora Battista, in difesa di Crocetta, ci mette il carico da undici evocando la “dimensione arcaica della Sicilia moderna” ma questo benedetto argomento – Crocetta a parte o, meglio, in partibus infidelium – proprio in un contesto come quello siciliano non è precisamente un tabù, piuttosto un qualcosa di risolto sempre con una scrollata di spalle e senza mai produrre sociologia o sordidi sussurri (mi permetto di dissentire con Battista, prima che gli americani comincino a bombardare via Etnea per liberare i puppi di Sicilia).
Se c’era un quid che rendeva ancora più simpatico Crocetta, straordinario sindaco in una città spaventosa qual è Gela, era proprio la leggerezza con cui se ne fregava del suo essere omosessuale nel frattempo che faceva sbattere in galera pericolosi mafiosi. E se adesso promette di non farlo per cinque anni, sta facendo dell’omosessualità – di quella sua, di quella di tanti – una parodia.

Non farlo mai più, il sesso, è una minaccia più che una promessa. E non è proprio il fondamentale dei problemi, in Sicilia, sapere se Crocetta si mette o non si mette, il cuore in pace. Non è proprio un argomento urgente anche perché, e la chiudo qui con questo curioso tipo della politica, diciamolo: cu su pigghia a iddu? Non è manco tanto bidduzzu, il Crocetta, e non vale più il gioco del sexual incorrect per poi alzare l’asticella del ricatto politically correct. Non si tratta di fare “io Tarzan tu Jane” con la patente del gusto sessuale oltre le liane dei garbugli di Sicilia. L’amico è furbo ma più che dei consigli di Klaus Davi, adesso, Crocetta ha necessità delle forbici di un sarto e di qualcuno che sappia asciugargli la vanità della ribalta. In tutto questo Claudio Fava, candidato di Sel per la presidenza della regione, ha superato nei sondaggi Crocetta che, infine, sta diventando imbarazzante più per gli omosessuali che per i suoi referenti politici.

Scusate la citazione, un poco forte, ma tutto il perdersi, nel frattempo che la Sicilia è tutta terra persa, tra “puppi, culi e paraculi” non paga. Con la scusa dei culi – scusate ancora – si fanno dunque avanti i paraculi. Il “puppo”, che sarebbe il polpo, non è un dispregiativo con cui la lingua etnea identifica gli omosessuali ma una versione vezzeggiativa e allegra, non fosse altro per obbedire a un preciso comando di Giò Stajano e mascariare così di lordume piccolo-borghese la parola “gay”, parola appunto ordinaria e propria delle mezzecalze. Parola indegna di quell’amore che fu (sono parole di Giò, buonanima), “privilegio degli dèi”.
Accanto a questa battaglia di civiltà, dunque, ma giusto al livello di “Volevo i pantaloni” (ricordate? Lara Cardella, da Licata manco a dirlo, sempre in zona di Gela), si fanno avanti uomini rudi, forti come foreste. Il candidato, nella sua solitudine effervescente, vuole accanto a sé il più potente dei luoghi comuni in innesto di ficodindia, nientemeno che il dottore Ingroia. Nell’impossibilità di averlo, visto che se ne va in Guatemala – con tutto il Guatemala che c’è qua, signora mia – il candidato cerca però in qualunque modo un questore, uno col ferro in pugno laddove per ferro s’intenda la pistola, il fuoco, la sparatina, insomma: l’uomo forte che in una sorta di rovesciamento cultural-sessuale obblighi la Sicilia a riscattarsi per tramite di un dilemma proprio cornuto e paraculo: o si salva coi culi, o si salva con gli sbirri. Ecco che sorge, dai tristi anfratti della retrograda Sicilia, una santa alleanza di emancipati e paladini. Ecco che sboccia, dalle buie segrete del Medioevo, un carosello di esteti e combattenti. Ecco, dunque, una sarabanda di creativi e giustizieri. Come neanche ai tempi di Carlo Magno e della Bella Angelica. Ed è così che si è arrivati, in Sicilia, alla famosa Opera dei Puppi.

Ma c’è, altro che se non c’è, tutta una vita seria di un’infinità di siciliani, omosessuali, che non somigliano né alla sollecitudine con cui i moderni vogliono ammodernare ogni cosa né al piagnisteo redditizio della denuncia preventiva. La Sicilia non è omofoba e mi spingo a dire non lo è mai stata. L’ultimo e definitivo gay pride lo fece, più di cinquanta anni fa a Leonforte, il signore Alfonso. Camminava lungo il Corso Umberto e ai ragazzi che gli gridavano dietro “arruso!” (termine, ahinoi, non addomesticabile), con grande signorilità, volgendosi verso di loro, disse: “Mi avete detto barone, mi avete detto”. Abitavo in un piccolo paese e mi ricordo del pedofilo, un vecchio che se ne stava seduto sulla scalinata della chiesa di Sant’Antonio sempre pronto a far misure col suo bastone: “Un’anticchia accussì me la fai vedere?”. Laddove l’uso del femminile qui intende il sottinteso dei sottintesi, la mentula. Ricordo pure uno che veniva chiamato “il fratello” e questo “fratello”, un signore dai capelli bianchi, gran lavoratore, faceva parte del presepe nostro, quello quotidiano. E non ci fu mai un episodio di violenza, di umiliazione o di sopraffazione. Né, in cambio, il “fratello”, da parte sua elargiva vergogna o paura, piuttosto la natura, quella sua così incastrata nell’armonia di una società rurale e tutta democristiana, come quella che ancora oggi, coi funzionari, i preti, e i gran commis che vanno ad abitare le belle stanze degli arcivescovadi, esiste e resiste mentre attendono ai loro affari, ai loro doveri e alle loro responsabilità senza mai sculettare e senza neppure precipitare negli inferi del brancatismo perché solo le “Cinquanta sfumature” di Ottavio Cappellani possono aggiornare l’eros di Sicilia (leggetele!), non le rivendicazioni a uso di campagna elettorale.

Non solo mai è stata omofoba la Sicilia ma, anzi, nella sua voracità sessuale, la terra ctonia ha avuto sempre un occhio di riguardo per l’omofilia. La fame di carne è stata sempre tale e tanta che le varianti dell’amore – specie con quel difficile rapporto che c’era tra maschi e femmine, mondi lontanissimi quali erano – erano per l’appunto obbligate a tutti i registri. E se posso ricordare il mio maschissimo amico Nenè, altrimenti detto Nenè Coccodè, dovrei raccontare di sua madre, poverina, che si disperava: non capiva perché le morivano tutte le galline, come se qualcosa le perforasse…
Non c’è massima colpa, in Sicilia, che si disperda poi nell’equivoco. Specie l’equivoco della radice arcaica. La discussione, di cui riferisco, fu fatta al circolo Pirandello di Castelvetrano, neppure molto tempo fa: venti anni fa. C’era Peppe che faceva tante domande e c’era il dottore Licata che rispondeva. “Che viene a dire”, diceva il primo, “che se io ci passo una coltellata ad una lattughina, divento lattughina pure io?”. Non c’è colpa, in Sicilia, che non disperda segni e significati del linguaggio. Ecco, prima di procedere oltre, una spiegazione sui termini fa d’uopo: “coltellata” sta, ovviamente, per penetrazione, mentre “lattughina” significa “soggetto passivo”, in questo caso “soggetto passivo maschio”.

Non c’è massimo grado di equivoco, in Sicilia, che non vada a capovolgere ogni fatica ermeneutica. La risposta del dottore Licata, ovvero Baldo, fu degna del grande clinico qual è: “Omosessuale vuol dire lo stesso sesso”. “Vah!”, rispondeva meravigliato assai il Peppe, per poi obiettare: “Scusa, tu sei dottore e ne sai più di me ma se uno è una lattughina, che fai, non gliela dai una coltellata? Diventi omosessuale se la coltellata non gliela dai”. Forse c’era solo un problema formale, forse pirandelliano, magari nominalista, le cose che si fanno a letto devono restare a letto e non venire fuori, tutto ciò che si odia, cresce, si addolcisce e si estenua e fatto sta che il dottore Baldo disse sì: “Peppe, mi hai convinto”.

Ci sono codici miranti ad esprimere significati di censura, e altri, gravidi di legami che attraversano la natura e la società, puntati a cancellare le differenze e la Sicilia, tra tutte le disgrazie ha due fondamentali fortune: così come non c’è mai stato razzismo, non c’è mai stata omofobia altrimenti come se la starebbero a spiegare i sinceri democratici tutta la chiassosa quanto allegra stagione di Nino Strano, legionario tra i legionari, quando con la fiamma del Movimento sociale, in quel di Catania, aveva intorno a sé, in campagna elettorale, i meglio puppi, i travestiti, le belle puttane di San Berillo e quei transessuali che oggi, invecchiati, ha coinvolto in una cooperativa per farne badanti e assistenti degli anziani di Catania. Non ne faceva dell’omosessualità una categoria politica, piuttosto, un’estetica. Se non ci fosse stata così tanta Sicilia, in questa furia tutta puppa, difficilmente sarebbe venuto fuori il Cigno di Ramacca (altro che Vincenzo Bellini), ovvero Cristiano Malgioglio, la cui frezza bianca, tra i capelli, è citazione. Glielo confidò un giorno a Salvatore Sottile mentre si contemplava davanti allo specchio non senza civetteria: “Come sono vecchia, come sono vecchia! Ma questo mio ciuffo bianco, questo triangolo qui, lo sai cos’è?”. “No, cos’è?” chiese Sottile, divertito mentre vedeva scorrere intorno tutto il fiume di vedette, ballerine e principesse della Rai. “E’ la Sicilia”, proclamò Malgioglio, “è la Sicilia bedda!” e se ne andò, sotto i riflettori, canticchiando “Gelato al cioccolato, dolce e un po’ salato”. Una furbata questa di Malgioglio, certo, a Ignazio La Russa, della stessa frezza, diceva: “E’ la nostra Fiamma!”.

Ps. E poi dice che uno si butta nel musical. E’ una vita che dico a Sergio Claudio Perroni, dio della letteratura, di metterci al lavoro per scrivere uno spettacolo di rivista en travesti dal titolo “L’Opera dei Puppi”. Una riproposizione del canovaccio del Ciclo Carolingio in chiave “La cage aux folles”. Con Carla Magno, Orlanda, Rinalda e il leggiadro Angelico. Ovviamente anche con i Saraceni, tutti cattivi e tutti masculissimi. Una cosa da mettere in scena al Teatro Sistina ma, come al solito, in vicende siciliane di puro teatro (di pura teatralità, direbbe Crocetta) la realtà supera la fantasia. Manco il tempo di pensare un’idea e già corrono i titoli di testa. Ecco che sorge, dai tristi anfratti della retrograda Sicilia, una santa alleanza di emancipati e paladini. Ecco che sboccia, dalle buie segrete del Medioevo, un carosello di esteti e combattenti. Ecco, dunque, esplodere una sarabanda di creativi e giustizieri. Come neanche ai tempi di Carlo Magno e della Bella Angelica. Ed è così che si è arrivati, in Sicilia, alla famosa Opera dei Puppi, buon divertimento.


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