Arrestato, scagionato, ma licenziato| "Voglio tornare a lavorare" - Live Sicilia

Arrestato, scagionato, ma licenziato| “Voglio tornare a lavorare”

Antonio Giuseppe Genovese, commesso di 50 anni, è stato arrestato nell'inchiesta sulle tangenti allo Sportello unico. Su richiesta del pubblico ministero, la sua posizione è stata archiviata. Il Comune, però, lo ha licenziato. Adesso spera nel giudice del lavoro.

Palermo. Storia di un commesso comunale
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Il 13 settembre il suo ricorso sarà discusso dal giudice del lavoro. È l’ultima chance per sperare di rientrare in servizio. Quella di Antonio Giuseppe Genovese è la storia di un impiegato del Coime arrestato, scarcerato, prosciolto, ma licenziato dal comune di Palermo. Oggi urla il suo dissenso: “Perché il giudice ha archiviato l’inchiesta, ma io sono senza lavoro? Ho una famiglia da campare, due figli che studiano e soprattutto una dignità”.

Ecco le tappe della storia che Genovese racconta a Live Sicilia. Nel 1996 entra in servizio come operatore Coime alle dipendenze del Comune con la qualifica di commesso preso il settore Urbanistica edilizia privata. Qualche anno anno prima era stato coinvolto in un incidente stradale. Sull’asfalto ha lasciato un figlio e un braccio. Gli è stata riconosciuta un’invalidità del 90 per cento. Il 25 novembre del 2011 Genovese finisce agli arresti domiciliari assieme ad altre quattro persone. Gli indagati sono ventuno e rispondono di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Secondo la Procura, il commesso faceva parte di una banda che in cambio di tangenti avrebbe agevolato il rilascio delle licenze allo Sportello unico.

Il 7 dicembre Genovese viene sospeso dal servizio. Tre settimane dopo il settore Risorse umane di Palazzo delle Aquile apre il procedimento disciplinare. Il settore è diretto da Alfredo Milani, nominato di recente al servizio Fitti, condannato tredici anni fa per una vicenda di corruzione e perdonato dal sindaco che anche allora era Leoluca Orlando. Una nota a sua firma informa Genovese che è stata avviata una “formale procedura disciplinare mediante contestazione degli addebiti in relazione ai reati sopra descritti”. La nota riporta, infatti, i reati della misura cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palermo e trasmessa al Comune. Genovese non ci sta e spedisce una memoria difensiva a Palazzo delle Aquile in cui, oltre a respingere le accuse, chiede di essere sentito. Nei mesi successivi il difensore di Genovese, l’avvocato Michele De Stefani, incassa due risultati favorevoli: il Gip annulla gli arresti domiciliari e impone all’indagato l’obbligo di dimora a Villagrazia di Carini. Obbligo che decade il 13 marzo. Da allora Genovese torna a essere un uomo libero.

Il 29 marzo il commesso si presenta all’ufficio disciplina del Comune, stavolta accompagnato dall’avvocato civilista Salvatore Centineo, davanti al quale chiede la sospensione del procedimento disciplinare in attesa che venga definito quello penale. Una richiesta non accolta. Il 26 aprile scatta il licenziamento “per giusta causa senza preavviso” come si legge nella determina comunale. Il dirigente Milani prende atto della decisione del Collegio disciplinare che si è riunito il 17 aprile. Ne facevano parte Fabrizio Dall’Acqua, Antonio Mercurio, Attilio Carioti, Sergio Palesano, mentre Milani era il relatore.

Nel verbale della seduta si legge che il “Collegio ritiene che, sia pure a prescindere dalle responsabilità che saranno eventualmente accertate in sede penale, le numerose intercettazioni che coinvolgono il dipendente siano idonee a dimostrare, ai fini disciplinari, il compimento di atti gravemente lesivi dei doveri di ufficio”. Secondo il Collegio, “in particolare due intercettazioni dimostrano in maniera inequivocabile, tra l’altro, l’inserimento e la partecipazione del dipendente all’associazione criminale”. Si parla di “perizie da presentare”, “tariffe” da richiedere ai “clienti”, “pratiche da agevolare”. Tutto ciò basta e avanza per dimostrare, secondo i dirigenti del Comune, che Genovese ha violato gli obblighi di diligenza e lealtà. Da qui il licenziamento in tronco.

Nel frattempo, però, l’inchiesta penale va avanti. Il 14 maggio lo stesso pubblico ministero Ennio Petrigni chiede l’archiviazione per Genovese e un altro commesso Natale Ciancio (anche lui è senza lavoro). Tre giorni dopo il giudice per le indagini preliminari Fernando Sestito dà loro ragione e ne archivia la posizione scrivendo che “risultano convincenti ed esaurienti le argomentazioni di discolpa fornite dagli indagati” e che “le affermazioni e le asserzioni trascritte dalla polizia giudiziaria dopo l’ascolto delle captazioni non possono ritenersi sintomatiche e probanti di una evidente e chiara partecipazione”. I difensori avevano sostenuto che nelle conversazioni non si faceva riferimento alcuno a tangenti e pratiche da agevolare. Contestavano l’interpretazione di una conversazione cruciale in cui si faceva riferimento a un tale Rosario. “Tu lunedì vai a prenderti questa perizia giurata, vai da Rosario e la vai a presentare”, diceva Genovese. Secondo l’ipotesi iniziale della Procura, si sarebbe trattato di Rosario Torrasi, funzionario dello sportello unico e principale indagato dell’inchiesta. E il collegio disciplinare si era allineato all’interpretazione dei pubblici ministeri. Di diverso avviso i legali di Genovese: il Rosario citato è un professionista non coinvolto nell’inchiesta.

Alla luce dell’archiviazione del procedimento penale Genovese chiede oggi di tornare al lavoro perché, scrivono i legali, “nessun fatto diverso da quelli penali è stato contestato a Genovese in fase disciplinare”. “Perché – si chiede il commesso Genovese – sono stato licenziato? L’inchiesta è stata archiviata. Non c’entro niente. È difficile, ma ho ancora fiducia nella giustizia. Non ho più soldi. La mia famiglia è distrutta. Neppure i parenti possono più aiutarci. Cosa devo fare – aggiunge -ditemelo voi. Cosa devo fare?”.


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