Dalla Chiesa, quando la trattativa |è andata a buon fine - Live Sicilia

Dalla Chiesa, quando la trattativa |è andata a buon fine

La testimonianza del giornalista e autore del documentario sulle stragi “1367 – La tela strappata”, che lega attraverso un filo l'omicidio del generale prefetto con le stragi di Capaci e via D'Amelio. Con la differenza che, nel 1982, l'accordo Stato-mafia è andato in porto.

Organizzato dal Centro Pio La Torre, questo pomeriggio alle 18 nella Sala De Seta ai Cantieri culturali della Zisa sarà presentato il documentario “Generale” che mostrerà pure aspetti privati del Prefetto ucciso a Palermo trent’anni fa. L’ha voluto e realizzato Dora dalla Chiesa, che porta il nome della sua dolcissima nonna che ebbi modo di frequentare, o forse qualcosa di più, quando Carlo Alberto dalla Chiesa e la sua famiglia vissero a Palermo negli anni sessanta.

Con Simona, Nando e Rita siamo amici da una vita. Li conobbi a tredici anni e li lasciai a venti. L’estate a Mondello trascorsa insieme, le interminabili partite nella caserma di corso Vittorio Emanuele, le gite, le riunioni del sabato, la baldoria alle feste di rito e in quelle organizzate alla buona. Rita, la più grande fra noi, era una specie di mammina. Ora quella differenza d’età si è azzerata. Simona e io siamo coetanei, con Nando ci togliamo quattro anni. I nostri genitori erano colleghi. Non avrei mai potuto immaginare in quelle estati spensierate che il 3 settembre del 1982 mi sarei trovato, da cronista, in via Isidoro Carini, per raccontare quella sera. Fu difficile, anche più difficile di Boris Giuliano (che però non riuscii a vedere), Piersanti Mattarella, Pio La Torre e poi di Rocco Chinnici. Carlo Alberto Dalla Chiesa nei miei ricordi di adolescente era riuscito a provocare, allo stesso tempo, ammirazione e timore. Quella sera era lì, abbracciato alla moglie, voleva proteggerla, lui l’imbattibile, massacrato dai colpi dei kalashnikov.

Poniamoci della domande, anche se scomode, anche se non sono, e forse non saranno mai, delle prove giudiziali. Oggi il quadro anche di quel delitto appare più chiaro grazie al lavoro di tre Procure che indagano sulle stragi del 1992-1993. Sta venendo fuori che c’è un filo che lega quelle stagioni di sangue. Ciò che dopo vent’anni sta emergendo sulla trattativa Stato/mafia rende ancora più evidente il contesto e permette di fare alcune considerazioni.

Semplificando si potrebbe dire: nel 1982 la trattativa sommersa diede i suoi frutti, lo Stato si piegò a mafie e potentati, dieci anni dopo la trattativa palese si bloccò, ma poi “Cosa nostra” riuscì a ottenere qualcosa (la decisione del Ministro della Giustizia Conso di interrompere il rinnovo di oltre 300 condanne di mafiosi al carcere duro) e finirono le stragi. Improvvisamente..

Nel 1982 la forza della corrente andreottiana della Dc siciliana riuscì a bloccare la Rognoni-La Torre e i poteri speciali per il neo Prefetto. La mafia chiese, la politica ubbidì. Con chi? Nella sentenza del processo per l’uccisione dell’on. Salvo Lima, (leader degli andreottiani e con Vito Ciancimino referente di “Cosa nostra”), ucciso per non aver saputo “aggiustare” il maxiprocesso in Cassazione, la corrente andreottiana della Dc siciliana ne esce con le ossa rotte. Non dimentichiamo che allora Lima & amici avevano tutto in mano:  Comune di Palermo e Catania, Regione, Provincie di Palermo e Catania, piccoli e medi comuni, Banche, la munifica società esattoriale dei cugini Salvo (uomini d’onore della famiglia mafiosa di Salemi poi arrestati e Ignazio ucciso nel settembre 1992), appalti di ogni genere decisi a tavolino e assegnati ai soliti noti. Un potere enorme che non poteva certo essere scalfito neppure dall’eroe italiano che aveva sconfitto il terrorismo.

Torniamo al 1982. Dalla Chiesa viene ucciso da killer mafiosi, ma chi erano i mandanti esterni? Se due più due fa quattro, certamente chi doveva garantire uno status quo, evitare cioè contraccolpi e rischi imprevedibili, magari perché l’esasperazione di dalla Chiesa – al quale erano stati promessi superpoteri che non arrivarono – avrebbe perfino potuto spingere il monolitico Prefetto a ricordare l’esistenza di un memoriale vergato da Aldo Moro, documento inaspettatamente scomparso dal covo in cui fu imprigionato lo statista.

Un delitto di Stato perché il governo aveva paura di perdere consenso in Sicilia, da sempre bacino privilegiato della Democrazia Cristiana che non badava molto a candidare sindaci e consiglieri vicini a “Cosa nostra”. Seguendo il profumo dei soldi, come faranno Falcone e Borsellino, nei suoi cento giorni dalla Chiesa comprese che non c’era la mafia da una parte e lo Stato dall’altra, ma che esisteva quello che Antonino Caponnetto definirà un “grumo” di interessi di mafia, massoneria deviata, pezzi dei Servizi segreti, imprenditori e politici collusi, e per motivi diversi anche della Cia americana. Lo stesso “grumo” agì negli anni successivi uccidendo il sindaco che ripulì la città dai grandi appalti, Beppe Insalaco; si oppose con forza alle giunte pentacolore ed esacolore di Orlando; prese parte a uno scontro fra i Servizi segreti puliti degli agenti Antonino Agostino (ucciso poi con la giovane moglie incinta) che con Emanuele Piazza salvò Falcone nel fallito attentato dell’Addaura (le sue carte sparirono per una perquisizione non autorizzata da colleghi dei Servizi) e quella di esponenti dei Servizi e delle istituzioni che invece scendevano a patti con la criminalità.

Perché tre giorni dopo il Parlamento approvò la legge Rognoni La Torre? Evidentemente perché il pericolo era stato spazzato via. Chi viene scelto per quel posto? Proprio il capo dei Servizi segreti civili, il Sisde, Emanuele De Francesco, con Bruno Contrada al suo fianco. Tre anni dopo sarà sostituito da un magistrato super discusso come Domenico Sica (preferito a Giovanni Falcone) che tentò di far condannare il magistrato Alberto Di Pisa accusandolo, con una falsa prova, di essere il “corvo” del Palazzo dei veleni, delle accuse a Falcone e al suo pool. Nel libro “Una rondine fa primavera”, che fra qualche settimana presenteremo col gruppo editoriale Novantacento, su quegli anni verranno raccontati particolari inediti, anche pubblicando per la prima volta due lettere dal carcere dell’ex sindaco Insalaco.

Ci sono poi tre episodi che collegano i delitti dalla Chiesa, Falcone e Borsellino: al momento della loro morte si mette istantaneamente in moto una organizzazione parallela all’attentato che ha il compito di far sparire le prove, tutte le possibili prove. Dalla Chiesa: alcune persone si presentano quasi allo stesso orario della strage nell’abitazione di Villa Paino per chiedere a due ignari custodi delle lenzuola per coprire i corpi dilaniati. Lenzuola! Questo avviene a oltre un chilometro di distanza dal luogo della strage, ma allo stesso orario. Che fecero quella sera i due uomini sconosciuti, certamente della Polizia o dei Servizi, lasciati soli in quella casa? Dopo undici giorni riapparvero in modo misterioso le chiavi della cassaforte, ma di carte importanti nessuna traccia. E’ certo che il generale-prefetto più volte avrebbe detto che quei documenti esistevano e chiusi in quella cassaforte erano per lui una sorta di assicurazione sulla vita. Si riferiva al memoriale Moro?

Dieci anni dopo la strage di Capaci: dalle borse di Falcone scompaiono dei flop disk nei quali il magistrato scriveva tutto, anche dei fatti che non avevano peso giudiziario, delle “non prove”, che però – proprio perché scritte da Falcone – qualche valore lo avranno avuto senz’altro. Alcune pagine vennero pubblicate dopo Capaci da “Il Sole 24 ore”: le aveva date lo stesso Falcone a Liana Milella con l’impegno di non pubblicarle. Quelle pagine le riconobbe Paolo Borsellino.

Andiamo a 1367 ore dopo, (come s’intitola il documentario 1367- La tela strappata prodotto da questa editrice), quindi alla strage di via D’Amelio: un investigatore o un falso investigatore, o un investigatore pagato dai Servizi e “fuori ruolo” si impossessa dell’agenda rossa nella quale Borsellino annotava tutto, sensazioni, quasi prove, movimenti, descriveva personaggi, interpretava gli interrogatori. Una bomba pronta a scoppiare. Chi ha l’agenda rossa? Una sentenza della Corte d’Assiste di Firenze per le stragi del 1993 sostiene testualmente che la strage di via D’Amelio è “anomala”. Quindi, ragionando, non doveva avvenire quell’estate. E allora, perché fu fatto saltare in aria? I motivi potrebbero essere due, sempre con il beneficio del ragionamento giornalistico: per l’inchiesta sui grandi appalti cominciata da Falcone, proseguita da Borsellino e conclusa dopo la sua morte, oppure perché il magistrato aveva saputo della trattativa Stato/mafia (il 28 giugno) alla quale si oppose con fermezza. Nella sentenza di Firenze si dice chiaramente: la trattativa ci fu, l’avviò il capitano De Donno del Ros con il figlio di Vito Ciancimino, Massimo; la proseguì il vice comandante del Ros, colonnello Mori che incontrò Ciancimino più volte. E ancora: la trattativa venne avviata dallo Stato e non dalla mafia, all’insegna del do ut des. Dello scambio. Chissà se Mori incontrando Ciancimino su ordine di qualche entità ricordava ciò che Dalla Chiesa diceva sempre ai suoi uomini dell’antiterrorismo, e quindi anche a lui: con la Brigate Rosse non si tratta. Tanti uomini sono stati uccisi per aver tenuto la schiena dritta: poliziotti, magistrati, carabinieri, politici, il medico legale Giaccone, l’imprenditore Libero Grassi. E tanti altri che certamente dimentico.

C’è dunque un filo rosso che lega i delitti eccellenti. Oltre ai corleonesi di Totò Riina, ci sono dei burattinai senza volto che prima decisero di cancellare l’ostacolo – non solo mafioso – rappresentato da dalla Chiesa e poi dopo dieci anni vollero far pagare ai protagonisti di quel maxiprocesso, nel bene e nel male, dal giudice Scopelliti a Falcone, Borsellino, Lima e Ignazio Salvo, la sentenza della Cassazione che dava il via agli ergastoli confermando che “Cosa nostra è unica e verticistica”. Sono dovuti passare altri anni, depistaggi di uomini dei Servizi che hanno costruito falsi pentiti e false piste, si è dovuto arrivare a uno dei più sconvolgenti conflitti fra istituzioni, fra Procura di Palermo e Quirinale, per tentare di arrivare alla difficile verità su quella lunga e violenta notte della nostra Repubblica. Certamente Carlo Alberto dalla Chiesa prima degli altri era riuscito a capire. Diventando un intralcio. Come Giovanni Falcone. Come Paolo Borsellino.


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