Il Guatemala | può attendere - Live Sicilia

Il Guatemala | può attendere

Su Ingroia scrive anche Felice Cavallaro, nella sua consueta rubrica per I love Sicilia (in edicola), "L'infelice". E dice chiaramente: "Caro Antonio, non dovresti andare in Guatemala".

PALERMO– Premessa. Antonio Ingroia non dovrebbe andare in Guatemala. Fa male a partire. E fa male il Csm a consentirlo. Troppi processi importanti aperti. Qualcuno concluso e perso, altri vinti, altri da approfondire. Quando dico “perso” mi riferisco per esempio al processo De Mauro con un solo imputato, assolto (Totò Riina). E mille sospetti su altri vecchi protagonisti (morti) della controversa storia siciliana. Ma, al di là delle inevitabili polemiche sui magistrati che strappano il mestiere agli assistenti universitari di Storia, come succede con la sentenza De Mauro lunga più di duemila pagine scritte da un giudice impegnato per 14 mesi, torniamo al magistrato in partenza.

Un’estate rovente come quella appena passata non ce l’aspettavamo proprio, a vent’anni dalle stragi del ’92. Celebrate nel peggiore dei modi. Con un crescendo di veleni che ha visto scattare frecce insidiose dalla procura di Palermo verso il Quirinale. Con un corollario di bordate continue, un giorno sì e uno pure. Con protagonista assoluto il magistrato più applaudito e denigrato, appunto Ingroia. L’abbiamo visto farsi intervistare in risciò davanti al palazzo di giustizia. Insolito. L’abbiamo letto sul blog di Beppe Grillo: “A volte la ragione di Stato è finita per prevalere sulle ragioni del diritto, sulle ragioni della giustizia”. Efficace. Poi, ancora: “Un Paese che non ha verità sul suo passato, non può costruire nessun futuro”. Beh, che fa? Ruba il mestiere ai giornalisti? Ripete le stesse frasi scritte mille volte da noi? Attento, siamo sul crinale del plagio. Ma, scherzi a parte, visto che non c’è niente da scherzare, dire per esempio che “gran parte del Paese è allergica alla verità” e che “soprattutto la nostra classe dirigente è affezionata al principio di irresponsabilità attraverso la ricerca dell’impunità, dell’impunità penale e dell’impunità politica” è roba generica, da lasciare a semplici giornalisti, ai soliti commentatori politici, forse a studiosi e storici, ma non a un inquirente impegnato sulla stessa trincea.

Perché quando Ingroia ripete che in questo Paese ci sono “troppi assassini in libertà, troppi mandanti di stragi ancora col volto coperto” fa echeggiare quanto scriviamo da sempre, ma quando conclude che questo accade “perché alla magistratura non vengono dati strumenti efficienti” supera già il tono che s’impone alla sua carica e poco vale la puntualizzazione finale: “Il mio era solo un appello alla società civile…”. Ad ogni passo aumentavano i dubbi dai quali sono stato pervaso ascoltandolo per mesi a ripetizione in Tv, rileggendolo la mattina sui giornali, rivedendolo sui siti. Fino all’ultimo giorno d’estate quando Ingroia è tornato su un palco di partito, quello dell’Idv, e ha scompaginato i miei quattro elementari cardini di un’idea di diritto e procedura. Quel giorno i tigì zoommano sul palco dell’Idv, aprono con la polemica di Antonio Di Pietro su Bersani, passano a Grillo sì Grillo no, a Vendola sì Vendola no, e in coda, come il cacio sui ricci, ecco gli applausi a Ingroia quando dalla stessa tribuna delle polemiche politiche il magistrato accende la platea con la frase choc riferita a stragi, trattativa, connivenze Stato-mafia: “Se fosse dipeso da me avrei trovato la verità vent’anni fa…”.

Il ragionamento sarà stato certamente anche più articolato e complesso, ma questo è il messaggio che arriva nudo e crudo su titoli e resoconti agli studenti universitari di giurisprudenza ai quali i professori ripetono che, per trovare la verità (giudiziaria), un magistrato ha la sue sacre scritture, cioè i codici, il diritto, la procedura, e che le prove del reato vanno dimostrate all’interno di quello che un tempo Roberto Scarpinato definì “un cerchio sacro”, l’aula del tribunale o della corte di assise, con precise regole e liturgie da osservare.

Pesano quegli applausi sulle certezze di un magistrato che, “se fosse dipeso da lui”, ci avrebbe già certificato la verità. Così si rischia di lasciare spazio alle parole e non ai risultati di indagini, lasciando prevalere le polemiche, il chiasso delle liti interne alle istituzioni, perfino all’interno dalla stessa corrente di sinistra della magistratura, appunto “Magistratura democratica”, spaccata in coda all’estate, con i vertici che prendono le distanze da Ingroia. Spettacolo improprio in cui manca la misura. E non basta alzare il tiro lasciando aleggiare che i propri insuccessi siano legati alla presenza di una inquietante “ragion di Stato”. Perché se ci fosse davvero, si avrebbe il dovere di indicare chi oggi la oppone. Senza insinuazioni generiche. Cercando la verità con gli strumenti che esistono, non con le proprie opinioni, come possono fare giornalisti e commentatori, politici o anche magistrati non direttamente impegnati nella materia. Per questo, partire e lasciare adesso, a me appare inopportuno. Né basterebbe collegarsi dal Guatemala in diretta per i talk show serali per sbandierare verità che vanno trovate e provate nel “cerchio sacro”.

P.S. Mentre scrivo, arriva l’ennesima minaccia al magistrato che, insieme con la sua famiglia, ha dovuto rinunciare a una vita normale. Vedo una valanga di solidarietà. Buon segno. Massimo rispetto. E massima sicurezza si impongono attorno al dottor Ingroia e ai suoi colleghi più impegnati.

Mentre scrivo, lo vedo collegato per l’ennesima volta su La 7, con la Gruber e Stefano Folli, da Zurigo. In vacanza? Per una rogatoria? Interroga un pentito? Viaggio segreto? Manco lo dicono più, come si fa gli artisti in tour. Folli azzarda chiedendo se con l’eccessivo presenzialismo televisivo e politico non rischia di danneggiare le sue indagini: “Credo di no”. Mi creda, dottor Ingroia. Tanti pensano il contrario. E questo dovrebbe bastare a insinuare il dubbio. A ritrovare misura.

 


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