Il bomber del neolitico - Live Sicilia

Il bomber del neolitico

Storie di mamme che accompagnano i figli alla partita di calcio e di papà tifosi pieni di rimpianti che millantano un mancato futuro nell'olimpo del calcio.

Ma la mamma non si riposa mai? Si, qualche volta. Per esempio: un’ora, un’ora e mezza, due volte a settimana. Nel primo pomeriggio in genere. A casa, sul divano? No. Alla scuola calcio del figlio, in tribuna-cemento. La mamma, di solito, ha ottemperato alle richieste di documenti della scuola, procurato le fotografie, compilato tutti i moduli e poi, accompagnato il bimbo, stramazza sulla panca e piomba in semi- trance, cullata dolcemente dalle urla di una ventina di ragazzini e di uno o due Mister, nonché dei loro simpatici fischietti.

Di tanto in tanto, un gol o un infortunio grave le procurano un accenno di movimento, due o tre secondi di esultanza o di preoccupazione, poi ripiomba nel suo stato catatonico, compila liste della spesa mentali, pianifica i successivi sei o sette pranzi e cene, conta i giorni fino alla prossima festività, calcola quante festività si prestino a ponte etc… Qualche mamma bizzarra legge un libro, addirittura, o rimugina problemi filosofici. Ed entrano in gioco i papà. Loro no. Non stanno seduti sul freddo cemento. Stanno attaccati alla rete protettiva del campo come gechi alle pareti di una terrazza. Non seguono il gioco. Seguono un giocatore, e gli urlano frasi del tipo: «salta l’uomo! Devi- saltare-l’uomo!» dove “l’uomo” è un microbo di un metro e dieci, con la maglia che gli arriva alle ginocchia, che corre come scheggia impazzita, a zig zag nel campo, cercando, se non di prendere la palla, almeno di farsi prendere dalla palla.

Sia pure per probabilità statistica. Il papà infatti è straconvinto che il figlio sia una promessa del calcio e se non si esprime è solo per assurde congiunture, come un Mister incompetente o l’arbitro venduto, una temporanea svagatezza del figlio, o ancora un campo inadatto (troppo piccolo, troppo grande, troppo in erba, poco in erba, bagnato, morbido, duro…), o infine forse le scarpe, i tacchetti, chi lo sa? Non solo è una promessa del calcio ma il piccolo è anche, senza dubbio, un attaccante. Se malauguratamente il figlio viene schierato in difesa, o – disgrazia! – in porta, per il papà è un colpo mortale, un’offesa personale, un complotto, un’ingiuria. Suo filgio deve essere, per diritto ereditario e per investitura divina, attaccante. Il papà è spesso perplesso, quando non schifato, dal come il Mister schiera la squadra: con la difesa a tre, o col centrocampo a rombo, o con due punte (o con Santa Rosalia trequartista), il bambino di sicuro segnerebbe.

Per non dire delle punizioni: il padre non si capacita del perché non sia suo figlio a batterle sempre e comunque, mettendo a frutto le lezioni che lui, il papà, gli ha dato per tutta l’estate. Col super santos in spiaggia, una porta aleatoria con due lattine per pali, la sorella di quattro anni col gelato in mano per portiere. Il Mister alle punizioni ci tiene molto. «Facciamo quello schema….» dice certe volte. E alza un sopracciglio, tossisce, schiaccia un occhio, arriccia il naso nella vana speranza di fare capire ai bambini a quale schema si riferisca. Se i bambini capiscono smorfie e contorsioni, scatta un balletto come di danza postmoderna, un movimento di finte e controfinte, che tutti si sfilano, chi scatta a destra, chi scatta a sinistra, quello sulla fascia, l’altro in profondità e alla fine….non calcia nessuno. Il designato è malato. O l’indomani aveva interrogazione di matematica. Oppure è a bordo campo a bere, ignaro.

A fine partita, mentre i bambini accompagnati dalla mamma vengono trascinati via così come sono, sudati e sporchi («che ancora devo fare la spesa e tua sorella è sola a casa!») quelli accompagnati dal papà devono subire i consigli impossibili del genitore («se tu, quando ti è arrivato quel cross teso da centrocampo, la stoppavi al volo, facevi un mezzo giro, colpivi di collo pieno col sinistro….» «…ero Ibrahimovič, papà»); la cronaca di una volta che il papà segnò un gol simile a quello che il figlio (invece!) si è divorato, e per pochissimo non lo presero all’Inter; l’evocazione del mitico campetto in cui, dopo innumerevoli peripezie e avventure, papà giocava – da attaccante, ovviamente – con gli amici più divertenti e più infaticabili del mondo (e di cui era il capo, manco a dirlo!). «Ma non era un campo come questo, – finisce col sospirare il papà – con l’erba! Sulle pietre, giocavamo, noi!» . E là i bambini in genere si buttano in macchina e accendono la radio, ad alto volume. Qualche figlio rompiscatole fà due più due: «ma non mi avevi detto che eri socio al Circolo del Tennis?» Per il papà è dura. La sua immagine eroico-tragica rischia di incrinarsi. C’è pericolo che il figlio non creda più neanche alla storia dell’Inter che lo voleva prendere. Il papà non intende rinunciare. Si fa serissimo. «Al Circolo del Tennis, a quei tempi, c’erano le pietre»

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