Storia di un boss pentito | Quei segreti nella tomba - Live Sicilia

Storia di un boss pentito | Quei segreti nella tomba

Il ritratto del collaboratore di giustizia catanese, che dopo il suo arresto a Nizza decise di passare dalla parte dello Stato.

CATANIA – Ventisette anni da uomo di mafia e altrettanti da collaboratore di giustizia. Dal 1986 sino a ieri si erano perse le sue tracce. Era andato a vivere all’estero, coperto da un’altra identità. Lo avevano seguito la moglie e i tre figli. Sino al giorno della cattura, avvenuta a Nizza, nel 1986, Antonino Calderone si era mosso sempre all’ombra del fratello Giuseppe, capomafia di Catania, detto “Cannarozzu d’argentu”, per via di un intervento chirurgico alla gola.

E grazie al fratello, aveva avuto un ruolo di primo piano nel racket delle estorsioni e delle protezioni, soprattutto nei cantieri edili, ai danni di imprenditori che operavano tra Catania e provincia. Chi non versava il “pizzo” pagava con l’incendio di escavatori e autocarri. Un giro d’affari che tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso portava nelle casse delle cosche catanesi centinaia di milioni di lire. Dopo l’assassinio del fratello, compiuto nel 1978, Calderone aveva deciso di cambiare aria, perché aveva capito che sarebbe stato la prossima vittima. Su di lui, infatti, avevano già posato gli occhi due picciotti che erano stati i “delfini” di “Cannaruzzu d’argentu”: Alfio Ferlito e Benedetto “Nitto” Santapaola.

Le cronache raccontano la prestigiosa e velocissima scalata dei due giovani ai vertici della mafia catanese proprio all’indomani della morte di “u zu Pippu”. Ma alle costole di Antonino Calderone si erano messi anche poliziotti e carabinieri. E già, perché sul fratello dell’ex capomafia di Catania boss pendeva un’accusa per associazione mafiosa e una lunga serie di omicidi. Per Antonino Calderone inizia il calvario. Davanti a sé ha solo il carcere. Sono giorni di confusione mentale. Ha paura per sé e per la propria famiglia. Ad un certo punto prende la decisione di collaborare con la giustizia, che cambia la propria vita e quella di altre decine di persone.

In oltre ottocento pagine di dossier, il pool antimafia dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo chiarisce alcuni tra i più eclatanti delitti compiuti tra Palermo e Catania. Calderone parla anche della strage palermitana di viale Lazio (dicembre 1969), dell’assassinio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (Ficuzza 1977), della strage della circonvallazione di Palermo (1982), dove viene assassinato il boss catanese Alfio Ferlito, e di quando il boss Benedetto Santapaola decide di eliminare tre ragazzini, dai tredici ai quattordici anni, “colpevoli” di avere fatto uno scippo a sua madre. Si tratta di Benedetto Zuccaro, Lorenzo Pace, Giovanni La Greca e Riccardo Cristaldi, tutti del quartiere San Cristoforo, lo stesso dov’era nato e cresciuto don “Nitto”.

Antonino Calderone si autoaccusa anche di diversi omicidi e non trascura di parlare dei rapporti tra la mafia e politica, di voti comprati e venduti e del tentativo di colpo di Stato che sarebbe stato organizzato dal principe “nero” Junio Valerio Borghese. Pare che al progetto Borghese si fosse opposto il boss corleonese Luciano Liggio. Calderone ricorda anche la scalata al vertice di Cosa nostra di Michele Greco, detto il “papa”. La notte tra il 9 e 10 marzo del 1988 tra la Sicilia e il nord Italia inizia l’operazione denominata “Calderone”. In manette finiscono 93 persone. Nell’isola si registrano arresti a Palermo, Catania, Siracusa, Agrigento, Caltanissetta, Enna e Trapani. Finisce in carcere pure don Agostino Coppola, l’ex prete che era stato implicato in tre sequestri di persona.

Antonino Calderone ha fatto parte di un clan per anni sempre in “guerra” con altre cosche. La più irriducibile è quella dei fratelli Mazzeo, detti i “carcagnusi”. Alla tregua si arriva nel giugno del 1978. Pare che per fare da paciere si fosse scomodato nientemeno che il boss italo-americano Frank Coppola, detto “tre dita”. Ma contro il progetto di pace sono i giovani Alfio Ferlito e Benedetto Santapaola. Una sera di tre mesi dopo, il boss Pippo Calderone viene sorpreso mentre viaggia in auto tra Acicastello e Catania. Al volante di una “A112” c’è un suo amico. Ad un tratto, la macchina viene accostata da un’Alfetta, dalla quale partono diversi colpi d’arma da fuoco, che centrano il boss. L’autista prosegue la corsa sino a Ognina, abbandona la macchina e scappa. Alcuni minuti dopo qualcuno si accorge che dentro l’A112 c’è un ferito. Calderone viene soccorso e portato in ospedale, ma muore nel corso della notte.

Dal giorno della morte del fratello la vita di Antonino Calderone cambia come qualcosa che da bianca diventa nera, anche perché non ha più nessuno che lo protegge. Parla con un paio di amici che non si sono ancora “collocati”, ma quelli gli allargano le braccia. Intanto, Calderone sente il fiato dei “nemici” soffiargli sul collo. Parla con la moglie e decidono di espatriare. Ma a Nizza ci restano sino al 1986, giorno della cattura. Poi, la decisione di “pentirsi”. Antonino Calderone non fa nomi , come si dice, eclatanti. Ma gli investigatori capiscono di essere sulla strada del cosiddetto “terzo livello”, forse politici, che da oltre quarant’anni gestiscono il potere in Italia. Insomma, personaggi ai quali la mafia ha sempre assicurato un considerevole numero di voti, sia per l’elezione al Parlamento nazionale sia a quello siciliano. Poi Calderone sparisce dalla circolazione assieme alla famiglia. Vive dal 1988 con un’altra identità. Qualcuno sospetta che non abbia raccontato proprio tutto. Ma ora quei segreti se li è portati nella tomba.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI