Fu vittima della lupara bianca |Il tribunale decreta: morte presunta - Live Sicilia

Fu vittima della lupara bianca |Il tribunale decreta: morte presunta

Dopo 28 anni si conclude una storia di mafia cominciata il 30 marzo 1985 quando la famiglia di Filippo Ciotta denunciò la scomparsa del giovane di 23 anni. Oggi il tribunale di Palermo ne ha dichiarato la "morte presunta".

la vicenda di filippo ciotta
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PALERMO – Con tre righe su un quotidiano, sotto la dicitura “Pubblicità legale”, dopo oltre un quarto di secolo si conclude una storia di mafia cominciata il 30 marzo 1985 quando la famiglia affranta di un giovane rapinatore di quartiere a Palermo si recò dai carabinieri per denunciare la scomparsa del giovane di 23 anni. Oggi 28 anni dopo il tribunale dichiara la “morte presunta”, ordinandone la pubblicazione sul giornale, di Filippo Ciotta, che compirebbe 51 anni il prossimo 24 aprile, vittima della “lupara bianca”, la morte silenziosa che i boss di Cosa nostra attuano per eliminare qualcuno che dà fastidio senza però fare “troppo rumore”. Ma dietro quelle tre righe ci sono il dolore della famiglia Ciotta e una lunga serie di atti investigativi e poi di processi in cui appaiono tanti nomi del gotha mafioso e di vittime eccellenti, una sorta di Amarcord di Cosa nostra.

Ciotta, che era latitante perché ricercato per una rapina, sparì nell’85 insieme a Giuseppe e Francesco Fragale, di 36 e 25 anni, e al loro parente Filippo Montagnino, di 16, con cui avrebbe messo a segno alcuni furti mancando di “rispetto” a qualche pezzo grosso del quartiere Sperone. I familiari dei Fragale fecero un appello: “Vi preghiamo, restituiteceli vivi o morti”. La madre dei Fragale, nonna di Montagnino, si presentò a un’udienza del processo per l’omicidio (con un imputato che fu assolto) con due gigantografie delle vittime le mostrò prima al presidente della Corte Giuseppe Prinzivalli (anni dopo accusato di concorso esterno alla mafia e poi prescritto) e poi agitandole davanti alla gabbia degli imputati gridando: “Ridammi i miei figli, disgraziato dimmi dove sono”. Ma non fu ascoltata. Nel corso degli anni, con le dichiarazioni di diversi pentiti, gli investigatori sono riusciti a trovare le prove con le quali i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio di diversi boss e killer mafiosi per otto omicidi degli anni Ottanta tra i quali quello del senatore del Pri Ignazio Mineo e dell’imprenditore e presidente del Palermo Calcio Roberto Parisi, oltre a quello di Ciotta. In primo grado all’ergastolo furono condannati all’inizio degli anni Duemila Antonino Marchese, Pietro Salerno, Giuseppe Lucchese e Francesco Nangano e a trent’ anni di reclusione ciascuno Francesco Tagliavia e Lorenzo Tinnirello. Ma la storia non finì. Nangano, che nel periodo del processo era latitante, condannato per mafia e per il delitto, fece parlare di sé perché gli inquirenti scoprirono che aveva una relazione sentimentale con un’ assistente sociale che era impegnata come giudice popolare in un processo di mafia.

La vicenda fu pubblicata da tutti i giornali. Nangano descritto come un boss e un killer rimase in carcere per oltre quattro anni. Poi venne assolto dall’accusa di mafia e in seguito anche da quella di aver ucciso Ciotta. Chiese i danni allo Stato e nel 2007 ottenne 270 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. Oggi tre righe sulla “pubblicità legale” chiudono la triste storia di Filippo Ciotta. I suoi familiari, però, non sanno ancora dove sia sepolto il suo cadavere.


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