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Cuffariano? Sarà lei!

Cuffariano, cuffarista, cuffarisma. Il cuffarometro della politica. Ma perché continuare a prendere in mezzo un vinto che non può più difendersi? E poi siamo sicuri che ci sia solo il Cuffarismo tra le piaghe della nostra terra?

Cuffariano sarà lei. No, lei è più cuffariano di me. E la spoglia di un vinto, rinchiuso in carcere per sua colpa, sua colpa, sua massima colpa, è il nuovo insulto di moda nella terra che vuole guardarsi allo specchio dell’antimafia, per mostrarsi diversa da quella che è. Per dimenticare. Nella contesa tra Pierferdinando Casini e Antonio Ingroia, con la triangolazione di Giampiero D’Alia, si commette un peccato di indecenza. Si manifesta viltà nei confronti di un uomo che non può più rispondere. E’ la stessa bieca operazione che si compie, con tecnica uguale in figure opposte, per la memoria di Paolo Borsellino. Nel caso del giudice assassinato da Cosa nostra, ci si proclama suoi continuatori in esclusiva, si prendono a sproposito dichiarazioni e parole lontane, applicandole a un contesto differente. Si certifica una falsificazione con furto. Tanto l’interessato non potrebbe sconfessare nessuno.

Nella vicenda di un politico colluso con la mafia, si sbeffeggia un cognome, immergendolo con crudeltà nel fango mediatico e non per pedagogia della legalità. Per fame di consenso. Un’altra appropriazione indebita di identità, elevata a paradigma della sconcezza e del male assoluto. E il coinvolto è vivo, ma neanche lui può replicare. Troppo flebile è la sua voce dal fondo di una cella in cui sconta la sua condanna. Stessa metodologia per personaggi irriducibili: la sottrazione (dis)umana al silenzio obbligatorio, per arricchire un bottino polemico di tornaconto.

Che Totò Cuffaro stia soffrendo la reclusione per sua scelta, per errori, perché ha tradito la sua patria e i siciliani onesti è verità che indigna e addolora. Indigna coloro che credono alla buona politica, al valore di comportamenti ineccepibili alla necessità non solo dichiarata ma effettiva dello strappo da ogni forma di contiguità con le zone d’ombra. Addolora molti che scambiavano un rapporto di consuetudine amichevole con l’ex governatore e hanno scoperto la sostanza di un indigesto profilo penale ed etico dietro la bonomia della disponibilità e della vasata. Ma altra cosa è lo scippo, proprio l’atto di scippare a una persona il nome, ridurre un’esistenza intera a un neologismo spregiativo per apporre un marchio familiare e perpetuo di ignominia. E poi, storicamente, non c’è stato, non c’è solo il cuffarismo tra le nostre piaghe. Ci sono numerosissimi altri “ismi” che meriterebbero sanzioni gravissime e che vengono salvati da una conveniente ipocrisia.

Dovrebbe saperlo un politico esperto e navigato come l’onorevole D’Alia che viene dalla stessa parrocchia politica del reietto Totò e che ha tirato il suo sassolino, nella lapidazione generale, asserendo: “Orlando e Cuffaro appartengono alla preistoria”. Non è vero, né per l’uno né per l’altro. Magari le clientele e la mafia, cuffariste o non, fossero i segni labili di un regime in disuso. Oggi potremmo celebrare la nostra redenzione. Purtroppo non è così. Caro onorevole, perché fare finta di ignorarlo?

 

 

 

 

 


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