Tutti in piazza per la Madonnina | Così rinasce la speranza di Palermo - Live Sicilia

Tutti in piazza per la Madonnina | Così rinasce la speranza di Palermo

L'immagine del campanile nella chiesa della Mercede al Capo

di ROBERTO PUGLISI Hanno visto la Madonnina al Capo. Hanno visto una suora. Hanno visto Santa Rita. Hanno visto un miracolo. E noi abbiamo visto la luce della città.

Il miracolo
di
4 min di lettura

PALERMO- Il cronista chiude il taccuino. Rimette la penna in tasca. Spalanca la bocca, giusto in tempo per inghiottire la prima lacrima. No, non ho visto la Madonnina del Capo. Non ho visto che un riflesso sul muro di una chiesa ai cui piedi c’era tutta la città. Ho visto molto di più. Ho visto qualcosa di eterno e indistruttibile. Ho visto la luce di Palermo. Tutta la luce, senza che mancasse nemmeno una stella in cielo.

Appuntamento qui alla chiesetta della Mercede – per un celebrato connubio tra fede e web – tutti chiamati dalla notizia, convocati dalla Buona Novella, a sua volta tramandata dagli internauti. Al Capo c’è una parrocchia. Sul tetto c’è un campanile da presepe. Sul presepe brilla una figura mistica, col velo bianco. Forse uno spettro. Forse una suora. Forse Santa Rita. Forse addirittura la Madonna, discesa tra noi perché si vede che ne abbiamo assoluto bisogno. Nessuno richiama alla mente Santa Rosalia, effettivamente non rassomiglia. Un popolo si ritrova accalcato in una piazzetta maleodorante, colma di munnizza e fetenzie. Col naso all’insù e i piedi nella melma, mentre senti il battito del petto correre fortissimo.

Avvio scettico, lento, sudamericano. Il Capo nel suo orrore, di sera, quasi per sbarrare la strada ai cacciatori di prodigi. Viuzze imbrattate dai resti vegetali del mercato. Un odore di città in decomposizione, eppure bellissima con le sue luminarie sui balconi, col rigore armonioso dei palazzi, con i fiori a sbirciare dai vasi arrugginiti. E’ Palermo, il moribondo che tenta di chiudere gli occhi nel suo letto, per recuperare la dignità che troppi, in vita, abbiamo calpestato. Un cane con una polpa rossa e puzzolente tra i denti supera e scappa. Comitive di speranzosi si scambiano informazioni: dov’è, lì? No, là? Cammini nel buio. Giri l’angolo, trascinato dalle voci. E vedi. Uno spazio piccolo quanto un salotto grande. La gente pressata, con i telefonini verso l’alto per immortalare l’apparizione. Lo sguardo incandescente, il respiro corto, le mani che additano.

C’è mezza Gesip. C’è uno con la faccia da malacarne che quasi abbraccia un maresciallo dei carabinieri, mentre gli mostra sull’iphone di incerta provenienza le foto e i video che l’hanno spinto a esserci. Si chiacchiera. No, nessuno ha visto davvero. Ognuno ha parlato con qualcuno che ha parlato con qualcuno che ha parlato con qualcuno che forse, avrebbe ammesso, che…

Non importa. E’ la febbre della speranza che vale. Contagia. Spinge alla frenesia. “Eccola, eccola, si muove!”. “’Nca quali, a mia mi pari un surci”. La comunità del Capo si divide in correnti filosofiche, acquartierate secondo dottrina. A destra gli scettici. Scuotono la testa. Mormorano ‘nzu. E ogni tanto occhieggiano, senza darne cenno. Hai visto mai che… A sinistra gli appassionati. Professano fino alla morte il loro credo: lassù c’è una figura benedicente. Si farebbero scannare, pur di sostenere il punto. Vogliono sognare. Disperatamente, vogliono sognare. In mezzo, i moderati che non si sbilanciano. Sono centristi dell’annunciazione. Si avvicinano, ondeggiando, alla frange contrapposte. Talvolta pendono per i miscredenti, talaltra sfiorano i madonnisti. Non prendono posizione. Non stringono accordi agnostici, né patti di mistica desistenza. Attendono.

Mi viene incontro uno. Mi afferra di peso (un miracolo della fisica) per il cappotto, mi trascina in un angolo. E’ invasato: “Ddà, ddà, a viri! A viri!”. Sono costretto ad annuire per salvarmi la pelle. Lui molla la presa soddisfatto. Prima di allontanarsi si volta, corruga la fronte. Ammonisce: “Mi raccumannu, scrivilu ‘nto giurnali”. In un cantuccio si sono organizzati con un binocolo. Se lo strappano. Scrutano, non trovano, non si arrendono. Per le strade è un sussurro, un mormorio ininterrotto, una cantilena: “tukeveditukeveditukevedi”. Si danno di gomito.

Si spegne la luce della piazzetta. Un urlo collettivo. Un applauso. Hanno visto, chissà. Il sacrilego di turno ad alta voce: “A mia mi pare fonbeiiggen” (Von Bergen, ndr). Un gruppetto parte per assassinare il blasfemo. La cellula di ultras imboscata scongiura l’omicidio per motivi religiosi con asserzioni inoppugnabili. E se fosse di buon auspicio?

Siamo qui. Tutti qui. Con i piedi incastrati nella melma. Guardiamo su. Non importa la munnizza. Stanotte conta soltanto la nostra speranza.

Torno verso la redazione. Mi chiama Piero, operatore di Livesicilia, uomo scettico, rotto a ogni evenienza: “Ti mando le riprese. Secondo me si capisce che non c’è niente”. Chiudo con un fondo di tristezza. La luce di Palermo è ancora con me, nel mio cuore. Un giorno si addormenterà. Ma è stata con me. Penso che sarebbe cosa buona pensare a un miracolo, desiderarlo. Penso al mare, ai corpi due ragazzi che non sono più tornati casa. L’orazione è confusa: “Padre nostro, che sei nel mare. Padre nostro che sei nel porto, Padre nostro, Madonnina del Capo”. Preghiamo per Massimilano e Salvo, scomparsi la domenica della Palme con Davide. Per i loro cari che vorrebbero abbracciare i corpi. Almeno, gli sia lieve l’infinito.


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