Cara vecchia munnizza - Live Sicilia

Cara vecchia munnizza

Ci lamentiamo sommessamente, non sappiamo bene nemmeno con chi prendercela, noi formichine, pulci, che continuiamo ad andare a lavorare ogni giorno da bravi piccoli pezzi del puzzle che chiamiamo sistema.

Palermo, anno domini 2013, lì dove un tempo c’erano le strade adesso ci sono catene montuose, di variopinte buste di cara, vecchia, munnizza. Non c’è quartiere che non possa godere della propria personale architettura spontanea di spazzatura. Dal centro alle periferie troviamo, in maniera squisitamente indifferenziata, organico, materassi marci, piante secche, lavastoviglie sfondate e tutta la munnizza che la comunità panormita è in grado di produrre in poco meno di un mese. Per chi non lo sapesse, la comunità panormita è in grado di produrre enormi quantità di munnizza, in poco meno di un mese. Se poi ci mettiamo Pasqua, pasquetta e 25 aprile andiamo in palazzo.

Orlando, che lo sa fare, si scusa.

Ce ne facciamo ben poco delle scuse, anche se, per carità, fa sempre piacere. Ma le scuse, quando diventano monotone, non fanno più nessun effetto. È solo che vedere il turista con le cosce ustionate che fotografa composizioni contemporanee di immondizia ha smesso di essere divertente già da tempo.

Mai come adesso è il caso di dire che il pesce fete dalla testa. Non me ne vogliano i dipendenti del simpatico carrozzone Amia, ma questa volta nessuno se la prenderà con loro se sembriamo tornati indietro di centinaia anni, a quando si stava nel fango insieme ai porci, senza remore. A quando i regnanti adoperavano i (eccessivi, ingiustificati) soldi rubati alle tasse per il loro (eccessivo, ingiustificato) trastullo e la gente in città era costretta dall’impotenza a vivere accanto a culle di batteri e malattie. C’è paura, infelicità, esasperazione, c’è rassegnazione, davanti il salatissimo conto che sappiamo è arrivato il momento di saldare. Ma dormono a cinque stelle, pasteggiano a bollicine e si coprono di ori e allori, gli alti papaveri delle municipalizzate, impuniti (per il momento) senza rancore e senza preoccupazione. Tanto poi qualcuno arriverà con la pezza, da una poltrona più in alto. Non è normale. Non è normale. Non è normale. Sarebbe il caso di ripeterselo all’infinito, finché non diventi un concetto di certezza granitica.

Entrare nel merito dei meccanismi che hanno portato a questo è una perdita di tempo, almeno lo è per noi che stiamo la base della piramide. La realtà è che (soprav)viviamo incatenati tra i roghi tossici, come se non avessimo la possibilità di reagire e con la spada di Damocle della miseria che ci pende sul naso. Ma siamo già miseri. Permettiamo senza fiatare che mani più furbe delle nostre ci frughino nelle tasche e ce le lascino anche rivoltate, oltre che vuote. Ci lamentiamo sommessamente, non sappiamo bene nemmeno con chi prendercela, noi formichine, pulci, che continuiamo ad andare a lavorare ogni giorno da bravi piccoli pezzi del puzzle che chiamiamo sistema. Piccoli ma fondamentali, senza la nostra presenza non si potrebbe mai completare il quadro. È con il nostro lavoro che campano loro, i re, con i valletti, la cacciagione in tavola e tutto il resto. Intanto il sangue, la voglia di rivalsa, la dignità, ci vengono succhiati via insieme alle imposte mese dopo mese.

In questo regno assolato e salmastro che ci ostiniamo a definire ‘Comune’, non siamo che comparse complementari. Siamo le viti della carrozza, l’olio degli ingranaggi. Olio fituso, ovviamente.

 


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