Appeso a un chilo - Live Sicilia

Appeso a un chilo

Questo testo invero scombiccherato si può leggere solo se siete mamme e se avete un figlio che fa il giornalista e che pesa centoundici chili. Vi abbiamo avvertito.

Da una donna siamo venuti al mondo per amore e fortuna. Tra le braccia di una donna ce ne andremo dal mondo, se saremo fortunati. Da piccolissimi. Si è minuscoli quando si nasce. Si è sottili quando si rinasce. In entrambi i casi, comanda la luce.

Io non ricordo bene il giorno in cui sono nato. Me l’hanno raccontato dopo. Pesavo un chilo scarso. Adesso che sono centodieci i chili, più quel chilo originario, cammino orgogliosamente a fianco della mia mamma. La gente stupita ci guarda. Balbetta. L’ironico di turno motteggia: “Scusi, cara signora, come ha fatto lui – e indica me – a uscire da lei”. Per quanto sia stata importante, pochissimo rammento della mia vita precedente, quando ero aggrappato a quell’unico chilo. Non saprei ricostruire i fatti, i volti e le parole. Forse sono diventato giornalista per recuperare con un’inchiesta definitiva i dati di me stesso bambino.

E così mi hanno narrato che ero gracilissimo e quasi non respiravo. Per una stranezza che nessuno sa spiegare mi portarono da un padiglione all’altro dell’ospedale non in un’ambulanza: nella Simca azzurrina della zia. E la portatrice del “coso” – corpicino invisibile, orecchie Dumbo deluxe – nemmeno mi trovava nelle bambagia. Da qui l’allarme: “Ferma, ferma, ferma! U’ picciriddu sciddicò”.

Il picciriddo crebbe. Per ricompensarmi dei patimenti dell’incubatrice e di una oscena magrezza infantile, la nonna decise di rimpinzarmi di arancine al burro, fin dalla più tenera età. La domenica ne divoravo cinque (una, due, tre, quattro e cinque. Ora due, ahi la vecchiaia…) e aggiungevo una mafalda con la mortadella per riempire lo spazietto che restava. La mia secolare disfida con la grassezza è difficile per la ragione appena esposta: c’è sempre uno spazietto maramaldo che invita la sesta arancina, il filone con burro e prosciutto o ulteriori vettovagliamenti da crimine contro l’umanità che hanno provocato numerose cause intestate ai miei danni dagli avvocati del mio colesterolo.

Verso i sei anni cominciai ad arrampicarmi sui muri, nel senso letterale del termine. Desideravo camminarci addosso, noncurante delle leggi della fisica e della gravità che peraltro ho sempre odiato, ricambiato. Provai a volare, riportando un cocente insuccesso. Sarà stato per l’acredine sbocciata dai fallimenti di cui sopra, o per la mancanza della settima arancina, che una mattina ingoiai un intero bicchiere di cristallo, frantumandolo a morsi. I medici non compresero quale angelo avesse protetto le mie evidentemente invulnerabili appendici interne. Derubricarono l’episodio alla voce “miracolo”. A dodici anni leggevo “I fiori del male” di Baudelaire. C’era uno stanzino accanto al salone. Di pomeriggio mi nascondevo lì. E mi raccontavo da solo le storie che inventavo.

Da una donna veniamo al mondo. Le donne devono avere molta pazienza per sopportare i nostri percorsi, soprattutto se sanno assecondarli. La mamma (mia) entrò in scena da protagonista tra il diciottesimo e il diciannovesimo compleanno. A casa c’era un solo stipendio, il suo. Gli orfani di padre, col massimo dei voti alla maturità, potevano sperare in una sistemazione. E venne la chiamata in banca. “Ma tu lo vuoi fare?”. “No, a me piace scrivere”. “E allora non ne facciamo nulla. Scrivi”.

Lei conserva gelosamente il mio primo articolo pubblicato sul “Giornale di Sicilia”. Tre righe. Li ha conservati tutti, in una scatola di dolci che ha cambiato ragione sociale nel corso del tempo. Oggi covo un segreto senso di pena, perché non sarebbe possibile, anche volendo, ritagliare lo schermo del Pc e conservare un frammento nella famosa scatolina. Ci sono altri rimorsi. Mi sento sempre in difetto. Se avessi a disposizione l’infinità dei secoli non potrei pagare un quarto del mio debito, manco col condono tombale. Grazie a Dio, la mamma è gratis.

Caro Lettore, se sei arrivato alla fine di questo testo scombiccherato, ti ringrazio per la prova di amicizia. Non ho scritto per te: offro il petto al giusto biasimo. Ho scritto per lei. Per lei che ha messo al mondo due figli e uno ha già accompagnato nella rinascita, con un girasole sull’acqua. Per lei che mi fa sentire piccolo piccolo, ancora appeso a un chilo, ogni volta che mi guarda e, chissà perché, sorride. In quel momento, in quel preciso e unico momento, ricordo com’è che sono nato.


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