Chi scriveva a Giovanni Falcone - Live Sicilia

Chi scriveva a Giovanni Falcone

La vita di Giovanni Falcone è stata un enorme ufficio postale in incognito. Gli scrivevano coloro che gli volevano bene. E lui direttamente rispondeva. Poi c'erano le altre missive, i messaggi indiretti. Quelli che il giudice inviava al mondo.

PALERMO- Giovanni Falcone spediva e riceveva molte lettere. La sua vita è stata un enorme ufficio postale in incognito. Gli scrivevano coloro che gli volevano bene. E lui direttamente rispondeva. Poi c’erano le altre missive, i messaggi indiretti. Quelli che il giudice inviava al mondo. E il mondo ne inviò parecchi a lui, magari sui giornali. Per esempio, il 14 aprile del 1985, il ‘Giornale di Sicilia’ pubblicò le lamentele di una residente in via Notarbartolo, oggi casa dell’Albero Falcone, che non sopportava le sirene: “Mi rivolgo al giornale, per chiedere perché non si costruiscono per questi ‘egregi signori’ delle villette alla periferia della città… Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse… Vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene”. Non è il solo caso, di fitta corrispondenza, appunto diretta o indiretta.

Il nove gennaio del 1992 un altro quotidiano, ‘La Repubblica’, propose ai suoi lettori un articolo a firma di Sandro Viola, Titolo: “Falcone, che peccato!”. Qualche passaggio: “Egli è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali… A Falcone non sarebbero necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre ‘particolari illuminazioni’: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista”. Nel giugno del 1989, un Corvo volava con le sue celebri frecciate anonime: “Insomma Falcone si è venduto per un posto da procuratore aggiunto. Che squallore!”.

Quel magistrato circondato, ogni tanto, dietro la sua maschera di necessaria impassibilità, non le mandava a dire. Come in una lettera al Csm, datata 30 luglio 1988: “Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze… Quando si è prospettato il problema della sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottore Caponnetto, ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità… Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza”.

E numerose opportunità si presentarono per pulire il coltello, talvolta con passione civile in buonafede, più spesso per interesse inconfessabile, sulla reputazione di un uomo braccato. Anche la Tv parla chiaro, negli spezzoni in bianco e nero di vecchi approfondimenti. Poco prima di Capaci, Falcone appare per quello che era: una persona inseguita da amici e nemici, con gli occhi ormai stanchi. Un brano della sentenza della Corte di Cassazione sull’attentato all’Addaura è lampante: “Non vi è invero alcun dubbio che Giovanni Falcone, certamente il più capace e famoso magistrato italiano, fu oggetto di ‘torbidi giochi di potere’, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di ‘meschini sentimenti di invidia e di gelosia’”.

Ogni tanto, però, c’erano lettere bellissime, come il foglietto in cui Francesca, sua moglie, gli scrisse: “Giovanni, sei la mia vita”. Deve essere ancora da qualche parte. Giovanni e Francesca si amavano. La sera del 23 maggio 1992 avrebbero dovuto cenare con uno dei piatti preferiti del giudice: il gateau di riso. E mancò il tempo.


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