La nave - Live Sicilia

La nave

Di chi è questo racconto? Sicuramente di un medico, o forse più medici. O forse di medici e pazienti. La firma è di chi materialmente ha scritto. Ma il senso appartiene a tutti.

All’imbrunire si accendono i neon in corridoio, nelle stanze e in medicheria. Si sente odore di cucinato. E’ il rancio che la mensa offre ai degenti. La corsia è divenuta come la coperta di una nave, mentre fuori è buio e il mondo è distante: chi percorre la vicina autostrada e chi a casa sua, cena davanti la tv; chi parla al telefono e chi naviga in internet. Qui, però, c’è un equipaggio di infermieri, di ausiliari e un manipolo di passeggeri che conta su me, che sono il capitano. Io sono il medico di guardia notturna. Gli ultimi parenti salutano i malati e abbandonano l’ospedale, mentre l’eco del telegiornale si ripete lungo il corridoio. Gli strisciati bianconeri hanno acquistato l’ultimo fuoriclasse. Le stanze sono troppo piccole e le barelle riducono ogni spazio di manovra, ma sembra che in un ospedale di oggi si debba sempre accettare ogni mancanza, in una folle corsa al ribasso che si ripercuote su chi dovrebbe essere il primo ed invece è l’ultimo: il passeggero.

Il gelido biancore delle pareti e dei soffitti unito al ribollire dei gorgogliatori dell’ossigeno e al ritmico respiro artificiale dei ventilatori spingerebbe chiunque lontano. E quando m’avvicino con le solite domande iniziali, mi accorgo che sotto quelle lenzuola che sanno di urina e sofferenza c’è una storia che come un fiume caldo di umanità, invade la mia anima. Inizio il mio giro dal fondo. In stanza 13 c’è quel piccolo respiro artificiale del ventilatore che sostiene il signor C. che fino a qualche giorno fa trascorreva il tempo della visita stringendomi la mano e sfidandomi con i suoi rebus. Più tardi, quel soffio vitale diverrà un grande rumore nel silenzio notturno della nave e si alternerà al soffio dei ventilatori degli altri passeggeri come lui. Ancora una parola e lo sistemo a letto come l’ultimo dei miei figli.

Gli infermieri hanno iniziato il giro della terapia della sera – “L’eparina è finita”, dicono; mando l’ausiliario a cercarla; un parente, come sempre, si lamenta; so già che non andrà mai a reclamare “più in alto”. Passo dalla stanza 10 e mi torna in mente l’artista tedesco, costruttore di aquiloni, che popolò l’aria della sua camera di origami colorati con le fattezze di rondini. Saluto due nonnine che recitano il Rosario in stanza 5. Accanto la signora B. ridacchia sarcastica. In un tempo della sua infanzia, “con una lentezza di movimento geologico” e per via della sua malattia, perse la fede. Scrive Alessandro Baricco in Emmaus: “In ogni momento del nostro cammino sappiamo che qualcosa può succedere, affine a un’eclissi totale – perdere la fede.” Forse perché “Ben prima che in Dio crediamo nell’uomo – e solo questo, all’inizio, è la fede.” O forse perché “Cercatori del senso, ci siamo spinti molto lontano, e al termine del viaggio c’era Dio – la totale pienezza del senso.” La signora B. ha perduto il senso della sua vita e non accetta più il progetto che Dio ha in serbo per lei.

Entro in stanza 1. Finalmente è arrivato l’esito dell’esame istologico e un uomo è lì, di fronte a me, che aspetta la sentenza. Nella mia guerra contro il cancro, molto più spesso ha vinto lui. Ma io non mollo: stasera inizia un’altra battaglia. Mi siedo sul bordo del letto e penso al mio maestro, ai suoi pugni chiusi e alle cornici concentriche che disegnava in certe notti insonni. Dolcemente inizio a intessere parole sfuggenti, ma precise. So che recideranno ogni vena di speranza nell’uomo che ho di fronte, abbandonato sotto le lenzuola col capo reclinato in avanti e a sinistra. Così gli parlo di forza, di battaglia e di luce. Gli stringo la mano gelida, sudata, e attendo in silenzio le sue lacrime e che il suo tremore raggiunga l’acme. Nel frattempo gli carezzo quella mano sinistra come fosse il più prezioso dei gioielli di questa terra, con lentezza e delicatezza. Quindi gli chiedo se posso parlarne con la moglie. Lui dice: “No”, guardandomi con durezza. “Va bene. Il padrone è lei”, dico “E io sono al suo servizio.” Gli auguro la buonanotte e vado via, mentre un rimorso mi assale vertiginoso, come se fossi io quel ladro bastardo che ruba il tempo alla sua vita.

Torno nel mio rifugio e mi stendo a letto. Certe notti la nave ondeggia tra i flutti e tu stai lì a dare ordini ai tuoi uomini guardando ogni tanto l’orologio, ché le lancette sembrano paralizzate. Certe altre ci si siede con gli altri e, come fanno i marinai, si ricordano vecchie storie delle tante traversate. Questa notte, grazie a Dio, no: tutto fila liscio. Apro gli occhi: l’alba è arrivata e il sole risorge sulla città. Entriamo in porto.


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