Piccole donne di mafia - Live Sicilia

Piccole donne di mafia

L'intervista di Lucia Riina. La storia della figlia di Matteo Messina Denaro. E sullo sfondo appare chiara la sconfitta della mafia.

Lucia e le altre
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La cosa più giusta e più misericordiosa – giustizia e misericordia spesso coincidono – l’ha detta Pina Maisano Grassi, vedova di Libero: “’Dalle parole della figlia di Riina emerge il suo dramma, tutto il suo travaglio interiore. Sinceramente non riesco ad essere arrabbiata con lei. Almeno è onesta. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Non c’è da essere onorati di quel cognome, ma rinnegare il padre è difficile”.

All’indomani dell’intervista in cui Lucia Riina si è detta ‘onorata’ del suo cognome, un’altra ‘figlia di mafia’, la ragazza di Matteo Messina Denaro – riferiscono le cronache – si sarebbe ribellata a suo padre, allontanandosi da casa. Non sappiamo se sia giusto contrapporre, seguendo un facile riflesso mediatico, l’onore rivendicato da Lucia e la scelta dell’altra piccola donna. Non sappiamo nemmeno se, in quest’ultimo caso, si possa parlare di rivoluzione o soltanto del desiderio legittimo di rinascere in qualche appartata lontananza. Però, la morale della storia è evidente: se esiste una prova solare della sconfitta di Cosa nostra, risiede nel dolore, nella dura condanna che i boss hanno impartito alla carne della loro carne. Una maledizione. Più degli ergastoli e dell’isolamento, più delle repressioni e degli arresti, c’è un fine pena mai in questa pazzia inflitta ai familiari più stretti.

Lucia Riina e le sue sorelle crescono in un imbuto che non prevede vie d’uscita, se non in due forme di mutilazione. Vivere, disprezzando e rinnegando e perciò separate da un’intera stagione di giorni tutto sommato felici. Vivere, fingendo distanza, descrivendosi “dispiaciute” per le vittime, simulando una normalità che non può esserci. C’è una terza strada, c’è la ricerca di un equilibrio tra la figura privata di un padre affettuoso e il suo ruolo concreto di carnefice, di assassino. Impresa improba. Ci vogliono decenni di analisi e di coraggio. Ci vuole il fegato di chi sa che la missione non prevede compimento. Semmai concede la nobiltà di una prova impossibile, l’eroismo dei kamikaze, l’amore di chi si lascia consumare dalla sua stessa lotta.

Basta guardare il celebre video di Lucia Riina alla tv svizzera per scoprire che la figlia di Totò mente a se stessa, perfettamente in buonafede, convinta di affermare la verità. Gli occhi sono allarmati. Le frasi vengono pronunciate con scarsa convinzione, secondo un copione. Quando Lucia dice: “Sono onorata del mio cognome”, sta dicendo altro. Il messaggio sotterraneo suona piuttosto così nella sua traduzione spicciola, tra virgolette che stavolta racchiudono un discorso mai riferito: “Arrivo da una storia di sofferenza di cui nessuno potrà mai avere pietà perché mio padre è il boia. Per non impazzire, per camminare sul filo senza cadere giù ho dovuto dividere in due quello che so. Ho dovuto mettere via il volto sanguinario di papà, per conservare il resto, le preghiere, l’affetto, le carezze – dopotutto perfino le belve hanno figli – e immaginare un’esistenza normale, al confine della mia porta e del mio campanello. So che fuori è accaduto qualcosa di tremendo, che l’uomo che sorrideva e portava i regali ai suoi bambini ha reso orfani e distrutto i bambini di altri padri. Ma se devo conservare l’integrità del mio spirito, ho bisogno di muovermi in una scena limitata. Vale ciò che ho sperimentato all’interno del mio perimetro e della mia infanzia, il resto appartiene al mondo, non è affare mio. Mi dispiace”.

Dall’esterno si intravvede a occhio nudo la filigrana della menzogna e lo sdegno non può che essere conseguente. A mettersi nelle scarpe di Lucia Riina, magari capiremmo meglio l’angolazione distorta per necessità.

Quanto vorrei l’affetto di una persona e, purtroppo, questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino…”. E’ un frammento delle parole della figlia di Messina Denaro. Sappiamo troppo poco. Non c’è stata alcuna intervista. La vicenda l’abbiamo appresa da una ricostruzione giornalistica e da tracce labili, disseminate come messaggi in bottiglia. Più che una ribellione – parrebbe di capire – viene fuori la confessione di una desolata solitudine. E’ una condizione simile alla precedente. Si parte dalla sofferenza assoluta, si approda a una scelta che comunque contempla l’uso delle forbici. Qualcosa si deve tagliare, tagliando se stessi.

I boss che si credevano potenti hanno dunque evidenziato una nera capacità di seminare il male al di sopra delle loro aspettative. Tra le macerie di Capaci e di via D’Amelio, sono rimaste sepolte pure le anime di persone care alle belve, perché perfino le belve amano. Ci sono gli occhi di Lucia talmente distanti dal suono della sua voce. C’è l’esile silhouette di una ragazzina diciassettenne, con i fili strappati, sperduta e confusa, senza bussola per orientarsi. C’è questa pazzia delle piccole donne di mafia che avrebbero avuto diritto a un padre e adesso sono costrette ad amare, a rincorrere, a fuggire un’ombra dannata. L’uomo che sorrideva. L’uomo che portava a casa i regali, con le mani sporche di sangue.


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