Io, mio padre, la Juve e Berlusconi - Live Sicilia

Io, mio padre, la Juve e Berlusconi

i tifosi eterozigoti amano due squadre: la prima per origine geografica, la seconda per interesse.

Mio padre era un uomo tranquillo. Tornava a casa per pranzo, in un’epoca in cui il pranzo era il pasto principale, e poi si godeva la pennichella. E non parlo di una sveltina con Morfeo sul divano con il suono della TV in sottofondo. Lui si metteva proprio a letto-letto con tanto di pigiama e serranda abbassata e, fino alle quattro, guai a noi bambini se volava una mosca. Su molte cose non andavamo d’accordo, ma i litigi più feroci avevano sempre gli stessi argomenti: la Juventus e Silvio Berlusconi.

Mio padre faceva parte di quella classe di tifosi, ancor oggi maggioritari a Palermo, che definisco “eterozigoti”. Come coloro che dal DNA dei genitori ereditano alleli diversi, i tifosi eterozigoti amano due squadre: la prima per origine geografica, la seconda per interesse. E, se non puoi proprio scegliere dove nascere, sin da bambino fai presto ad apprendere che quando devi salire su un carro è meglio che sia quello del vincitore. Ma mentre per mio padre fu facile farmi innamorare del Palermo, i suoi tentativi di trasmettermi l’altro allele, quello juventino, fallirono sempre. Anzi, proprio per quell’arroganza del potere e per quella fame insaziabile di vittorie così tipiche della Juventus, nutrivo per la sua “squadra di convenienza” il più viscerale tra gli odi sportivi.

Per sua fortuna, i destini delle sue due squadre s’incrociarono in una sola occasione importante: la finale di Coppa Italia del 1979 vinta dalla Juve (e ti pareva) con un gol di Causio al 117° minuto. Ricordo mio padre quasi in lacrime alla fine della partita. In fondo, per il suo allele bianconero, la vincita di una coppetta era una gioia effimera. Niente rispetto al rango di trionfo da ricordare in eterno che avrebbe assunto quella Coppa per quello rosanero. Oltre che per i suoi figli.

 Il nostro secondo eterno motivo di dissidio era Berlusconi. Come tanti “moderati” e “liberali”, prima che questi termini fossero soggetti a quotidiano stupro etimologico, mio padre salutò con entusiasmo la discesa in campo del “figlio del modesto bancario capace con le sue forze di costruire un impero economico”. Mi parlava con ammirazione sincera dell’imprenditore illuminato e lungimirante che, partendo dal mestiere di palazzinaro, aveva cavalcato e addirittura indirizzato l’onda impetuosa della liberalizzazione dell’etere. Rispondeva stizzito alle mie obiezioni sull’opportunità che un uomo che possedeva giornali e televisioni fondasse un partito con il proposito di governare il Paese. Era convinto, dalla sua ottica di galantuomo vecchio stampo, che Berlusconi fosse pronto a porre le sue straordinarie capacità organizzative al servizio dei suoi connazionali. E poi, più prosaicamente, concludeva il discorso affermando che Berlusconi non avrebbe avuto alcun bisogno di rubare come i suoi predecessori della Prima Repubblica. “Non gli conviene rischiare la galera: è già ricchissimo di suo”. Temo che avesse torto.

Della mia antipatia per la Juventus ho già scritto. Ma se non avessi alcun altro motivo per nutrire lo stesso sentimento per Berlusconi, ci sarebbe il ricordo del viso paonazzo e degli occhi strabuzzati di mio padre mentre litiga con me per difenderlo. Da lassù mio padre ha già assistito ad un rovescio della Juventus: avvenne quando, travolta dallo scandalo di Calciopoli, finì in Serie B nel 2006. Dopo quel purgatorio, la Juventus è tornata più forte e più proterva che mai. Sull’altro versante, la settimana appena trascorsa è stata segnata dall’espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato. Più che un cartellino rosso, una retrocessione. Con tanto di lacrime, donne vestite a lutto e bandiere al vento. Chissà cosa pensa adesso mio padre lassù. Chissà se già aspetta una nuova rivalsa. Chissà se immagina di sorridere beffardo verso di me alla vista del suo beniamino politico che risorge dalle ceneri come la Fenice bianconera o se invece s’è già rassegnato a doversi un giorno scusare con un: “Avevi ragione, figlio mio”.

Ma in effetti so già che non mi confesserebbe mai di aver sbagliato. Come mai avrei fatto io con lui. Litigavamo sul calcio, sulla politica e su tante altre cose, ma in fondo eravamo identici nella nostra orgogliosa incapacità di ammettere un proprio errore di fronte all’altro. Proprio come avviene, sin dalla notte dei tempi, in ogni rapporto tra un padre e un figlio.


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