Lo sciopero degli investimenti: | quattro luoghi comuni e una legge - Live Sicilia

Lo sciopero degli investimenti: | quattro luoghi comuni e una legge

La chiusura della Fiat di Termini impone una domanda: perché le imprese non vogliono realizzare investimenti in Sicilia anche in presenza di sostanziosi incentivi? Analisi del fenomeno siciliano.

Il doloroso caso di Termini Imerese impone un interrogativo. Perché le imprese non vogliono realizzare investimenti in Sicilia anche in presenza di sostanziosi incentivi?

Per fare ripartire lo stabilimento FIAT, la cui chiusura è valsa finora a infliggere una perdita secca di quasi un miliardo per il PIL regionale e sta determinano una situazione di rischio per 3500 addetti – ricordiamo – ci sono ampie risorse disponibili, almeno sulla carta: trecento milioni per l’accordo di programma che dovrebbe impostare un progetto di reindustrializzazione e 150 per la riqualificazione infrastrutturale.

Guardiamo al tema inquadrandolo in un contesto più generale. In Sicilia, ormai da più anni, possiamo parlare di uno “sciopero” di investimenti produttivi come attesta l’Annuario Statistico Regionale (2012).

Un recente studio della Confindustria pone la nostra regione al terzultimo posto della graduatoria territoriale 2010-2012 formulata in base ai cosiddetti indicatori di sviluppo, seguita da Calabria e Campania. Questo accostamento, ci ritorneremo in seguito, potrebbe non essere occasionale. Tra le ultime dieci città della graduatoria troviamo Palermo, Trapani, Caltanissetta, Agrigento, Enna (questa, ultima in assoluto).

Eravamo rimasti eccitati da un dato positivo: dal 2005 al 2011 in Sicilia le aziende a partecipazione estera (prevalentemente nei settori del petrolio, impianti eolici, immobili) sono passate da 59 a 132. Ma l’entusiasmo è svanito quando un’ulteriore verifica ha stimato in appena 600 la variazione di occupati realizzata nei sei anni indicati (una media insignificante di 100 per anno). Del resto – la stima risale a qualche anno addietro ma rimane indicativa – l’occupazione nelle imprese a partecipazione estera della regione Sicilia sull’analogo parametro stimato per l’Italia era pari allo 0,4%. Sulla forza lavoro totale siciliana scendeva allo 0,2%.

Uno studente di economia del primo anno snocciolerebbe subito i fattori che incidono negativamente sul grado di attrazione: costo dei trasporti, assenza di infrastrutture industriali, aree d’insediamento scarsamente attrezzate. Ma ad una seconda domanda saprebbe pure indicare fattori di vantaggio: presenza di manodopera istruita a basso costo di inserimento. Resta da aggiungere, come in un mantra afflittivo, il problema della criminalità organizzata , intravista come elemento che con la sua presenza determina extra-costi ritenuti irrecuperabili.

Cambiamo completamente angolo di visuale e proviamo a capovolgere alcuni luoghi comuni. Il primo è quello che intravede nella “rivoluzione “ pubblicizzata dalle televisioni nazionali, un processo decisivo a generare aspettative positive sulla profittabilità di nuovi investimenti in Sicilia. A partire da un aspetto importante, l’immagine. Il “cavallo che non beve” degli imprenditori locali potrebbe essere sostituito da aziende “esterne” convinte della convenienza ad operare in Sicilia. Ma oggi, non esistono road show per illustrare i vantaggi di un investimento in Sicilia, le campagne promozionali soffrono di “giacchettismo”, la politica regionale fa di tutto per contribuire ad esaltare della Sicilia i caratteri più sgradevoli. Insomma, un’azione complessivamente tafazziana che oscura propositi ed azioni di cambiamento.

Altro luogo comune: servono più incentivi. Invece, andrebbero azzerati perché oggi servono soltanto a stimolare il moral hazard di falsi imprenditori. E sostituiti piuttosto da un tutor in grado di assicurare velocizzazione burocratica ad un vero imprenditore che voglia realizzare un investimento. Veniamo al terzo luogo comune. Abbiamo visto che proprio le regioni in cui viene ritenuta più forte la presenza della criminalità mafiosa sono quelle con gli indici più bassi di sviluppo. Pensiamo che la correlazione non sia casuale. In cosa consiste il luogo comune: nel ritenere che un’antimafia di parole, di pronunciamenti, di manifesti, disegni un quadro rassicurante per gli imprenditori. Così come l’impegno lodevole e giustamente esaltato dei magistrati e delle forze dell’ordine. In effetti questo sistema antimafia lascia fuori però – anche per un’insufficienza obiettiva del potere giudiziario, forse imposta dall’alto e non tale per cattiva volontà degli dei – la corruzione dalle istituzioni, la microcriminalità, la compartecipazione viziosa intimata dalla politica. L’analisi costi-benefici relativa agli extra-costi da criminalità a questo punto non fornisce, salvo eccezioni, valutazioni positive.

Il quarto luogo comune, avvertiamo subito, è di sgradevolissima trattazione. Una disoccupazione che ha dentro soggetti con priorità di collocamento acquisiti, che possono vantare simili diritti ad essere assunti, come direbbe Totò a prescindere, spaventa imprenditori che vogliono rilevare aziende e non investire, come si dice, “greenfield” (realizzando una nuova iniziativa senza alcun tipo di collegamenti con attività passate). Quanto diciamo è ignobile, ci vergogniamo a scriverlo, ma è la pura realtà. Un piano di investimento ritiene l’occupazione come variabile dipendente sia per il numero sia per le mansioni sia per la tipologia contrattuale. In sostanza c’è una legge economica in Sicilia che grosso modo, parafrasando un gigante dell’economia, Piero Sraffa, può così enunziarsi: la disoccupazione crea disoccupazione. A meno di iniziative economiche del tipo di quella dei centri commerciali che possono giovarsi di manodopera a bassissima qualificazione e con un bassissimo salario di riserva (aspettativa di reddito).

Ultima osservazione. Ma a chi compete realizzare forme di attrattività? Alle associazioni industriali, alla Regione, agli enti locali, ai centri di ricerca. Con riferimento a Termini Imerese ci si è rivolti ai cosiddetti advisor, termine elegante che nasconde specializzazione nella realizzazione di “affari”. E qui sta il punto chiave della questione . Oggi, la Sicilia, per più ragioni, appare una terra in cui è difficile per imprenditori fuori da lobby politico-economiche realizzare “affari”. Se non si è l’Eni o la LUKoil gli “affari” oggi sono ristretti alle energie alternative ed ai rifiuti. Per il resto fare un investimento con impiego di lavoro in Sicilia (per esempio di tipo turistico, salvo il caso di holding internazionali del settore) è come farlo in una qualunque area di sottosviluppo: con un grado di rischio cioè che tendenzialmente supera l’efficienza marginale del capitale, per rispolverare vecchie nozioni di introduzione all’Economia. Nozioni che gli imprenditori schumpeteriani ed i loro consulenti conoscono a menadito.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI