Se la lotta contro l'omofobia | arriva a negare la persona - Live Sicilia

Se la lotta contro l’omofobia | arriva a negare la persona

L’unica strada è quella di mostrarsi liberi nel donare agli altri la propria diversità, la propria unicità, lontana dai generi che da sempre costituiscono il fondamento di ogni pregiudizio, degli odiosi distinguo tra sé stessi e gli altri.

I giochi olimpici di Sochi volgono al termine con il consueto bagaglio di emozioni regalate sulle piste da atleti consegnati alla gloria sportiva in uno scenario che quest’anno ha offerto una competizione nella competizione. Militanti per i diritti civili hanno sfidato un regime ostile ad ogni forma di apertura sui temi dell’omofobia e della discriminazione attraverso campagne di sensibilizzazione dai toni e dalle forme più diverse ma unite dalla quasi universale condivisione del messaggio di libertà sostenuto nelle manifestazioni di piazza e sul web, nuovo terreno per eccellenza della mobilitazione collettiva mediante quelli che – con dubbio gusto – vengono ormai comunemente chiamati spot virali.

Uno di essi, forse il primo e più emblematico, è stato quello promosso dal CIDI – il Canada Institute of Diversity and Inclusion – nel tentativo, forse mal riuscito, di offrire un messaggio contro l’omofobia dilagante nella società russa e recepita da un governo mai così vicino ai propri cittadini nella difesa di questi insuperabili pregiudizi. I giochi olimpici avrebbero potuto rappresentare un’occasione irripetibile di apertura e confronto in un Paese da sempre restio a cogliere i venti di cambiamento, in uno scenario di sport a due passi dagli orrori di una guerra in cui è proprio il genere, la razza, il credo religioso, l’attributo che di volta in volta accompagna l’individuo, a costituire il pretesto per una nuova forma di discriminazione e per un nuovo, doloroso, conflitto.

Invece, il video affida ad immagini nuove un messaggio vecchio: attraverso quel viaggio di 33 secondi lungo una pista di bob sulle note di “Don’t You Want Me” sembra che dal Natale del 1981 in cui il brano degli Human League spopolava in Gran Bretagna nulla sia cambiato. Stereotipi ormai usurati che sembrano ignorare una rinnovata coscienza collettiva scaturita da anni di lotta dal sapore romantico, quasi pionieristico, per i diritti civili e contro le varie forme di discriminazione che ancora continuano a permeare e plasmare una società arroccata su atavici pregiudizi. Una danza che gronda allusioni sessuali scontate, pesanti come piombo fuso, immagini soffocate da gesti che perdono il tratto della metafora ed assumono quello della macchietta, il corpo che annienta lo spirito e sembra divenire un prodotto, un marchio. Due atleti che indossano tutine attillate ed anonime, nere come divise, caschi impenetrabili che nascondono alla vista ogni tratto distintivo, ogni accenno a quella scintilla di umanità che rende ciascuno unico e diverso: ancora una volta è il genere che prevale sull’individuo.

Negare le sensazioni che attraverso gli occhi ciascun individuo lascia trasparire, quegli attimi unici ed irripetibili di genuinità spesso inconsapevole, appare una barbarie pari a quella di chi vuol limitare la libertà di vivere nel modo più spontaneo ed appagante la propria sessualità e la propria esperienza sentimentale. Appaiono colpevolmente ignorate ben più suggestive metafore: le sensazioni uniche che si rincorrono sui campi di gara, gli anni di fatiche, di sacrifici e di rinunce; i sogni infranti e quelli realizzati; le soddisfazioni per gli obiettivi raggiunti e le delusioni per i traguardi falliti; le lacrime di gioia o di dolore che accomunano tutti, indistintamente. Campioni di nazioni da sempre nemiche, fianco a fianco in una competizione in cui l’unico distinguo è il valore del singolo individuo e non la razza, il credo politico o religioso, la preferenza sessuale o sentimentale: è questo lo spirito olimpico, il trionfo della diversità nella sua forma più virtuosa.

Confinare la lotta contro l’omofobia e la discriminazione entro i ristretti limiti di un corpo che diviene un oggetto, un simbolo, nel tentativo di combattere il pregiudizio si risolve ancora una volta in una lotta di genere che rischia di negare l’individuo piuttosto che valorizzarne ogni tratto distintivo. La sessualità non è un biglietto da visita, un vessillo da ostentare per ottenere riconoscimento, ma un aspetto privato, inviolabile, indifferente ai fini della considerazione di sé e di chi ci sta intorno. Non si può combattere la discriminazione ostinandosi a guardare il mondo attraverso un recinto; non si può sperare di lanciare al mondo un messaggio di libertà uniformandosi ad uno stereotipo quasi da imporre a forza a chi, di contro, si ostina a rinnegarlo e combatterlo.

L’unica strada è quella di mostrarsi liberi nel donare agli altri la propria diversità, la propria unicità, lontana dai generi che da sempre costituiscono il fondamento di ogni pregiudizio, degli odiosi distinguo tra sé stessi e gli altri. Come tutti gli spot virali anche questo pecca di banalità: nel discutibile intento di rendere uniforme, semplificare fino ad annientare tutto ciò che invece va scoperto e vissuto nel rispetto della propria ed altrui sensibilità, nell’incontro tra le rispettive diversità, lascia penetrare in una società priva di un terreno etico comune l’idea di un “noi” e di un “loro”: il fondamento di ogni forma di discriminazione.

 


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