Colpa dell'euro, ma anche no - Live Sicilia

Colpa dell’euro, ma anche no

La verità, scomoda quanto si vuole, è che il dannato euro che ci portiamo in tasca da dodici anni ci ha permesso di portare in salvo la pellaccia.

La disoccupazione che dilaga e inchioda all’immobilismo tre milioni di persone? Colpa dell’euro. La povertà che corrode i sogni di chi pensava di averla sfangata nella vita? Colpa dell’euro. Le fabbriche che chiudono e se ne vanno in Austria? Colpa dell’euro. L’influenza, il buco dell’ozono e i cannoli con la crema pasticcera? Tutta colpa di quella dannata moneta unica. Mi son distratto un attimo? Colpa dell’euro, ovvio. C’è del vero nella filastrocca delle falsità sulle colpe dell’euro: la tecnica del capro espiatorio funziona egregiamente dove l’opinione pubblica suole abbeverarsi alla perniciosa e ingannevole fonte delle suggestioni.

In un paese di impenitenti creduloni e immarcescibili smemorati il minimo che possa succedere è addebitare alla valuta la mancanza di quattrini e non, come sarebbe logico se a prevalere fosse il ragionamento, a come si dovrebbero fare i quattrini, con quali idee, quali prodotti, quali innovazioni. Si spiega così la popolarità di un personaggio singolare come il giornalista Paolo Barnard, guru della moneta come variabile indipendente, per cui se il problema sono i soldi, basta una stampante. In fondo, avrebbe detto Totò, “noi non spacciamo moneta falsa; ecco, casomai, noi tutt’al più siamo una succursale”. Senza lo scudo della moneta unica e con la liretta issata sul pennone della nostra autarchia saremmo finiti a gambe all’aria con certezza matematica.

Quelli che “usciamo dall’euro e torniamo alla lira” durante la tremenda crisi del ’92 forse erano in vacanza alle Bahamas. Quelli che vorrebbero sostituire l’economia monetaria con la numismatica in oro zecchino o il bitcoin (grottesca la storia della moneta virtuale) non hanno semplicemente contezza dei fatti e delle variabili. È un fatto che la moneta unica ha fatto godere al nostro paese un generoso dividendo fondato sulla virtù degli altri partner europei: tassi di interesse bassi fin dalla seconda metà degli anni ’90 quando era già chiaro che l’Italia, seppure con l’affanno dell’ultima arrivata, sarebbe stata della partita. Secondo stime attendibili grazie ai bassi tassi abbiamo risparmiato qualcosa come 700 miliardi di euro di interessi sul debito pubblico in poco meno di vent’anni. Grazie all’euro abbiamo debellato definitivamente l’inflazione, esternalità tipica di un combinato disposto che ha caratterizzato a lungo la via italiana alla crescita: svalutazione competitiva della moneta per aiutare le esportazioni e maggiore costo delle materie prime importate che si scaricava sui prezzi finali al consumatore in termini di maggiore inflazione.

La verità, scomoda quanto si vuole, è che il dannato euro che ci portiamo in tasca da dodici anni ci ha permesso di portare in salvo la pellaccia; e non è vero che si stava meglio quando si stava peggio, refrain che accomuna i populismi commedianti di ogni epoca, da Giannini a Grillo. Se stiamo in piedi, nonostante tutto, è merito del cordone di sicurezza che ha avvolto come braciole sgangherate i paesi mediterranei, più inclini a giocare a pallone in cortile che a fare i proverbiali compiti a casa. Perché l’euro una colpa c’è l’ha: aver imposto alle nazioni poco virtuose di diventare virtuose per affrontare i marosi della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica che nel primo decennio del secolo avrebbero trasformato in maniera radicale il modo di produrre e ridisegnato profondamente la geografia economica del globo.

Se l’Italia rischia di diventare un paese periferico fondato sul lavoro a basso costo è perché si è creduto che la curva stagnante della produttività non fosse un problema e che in ogni caso la fiducia nello stellone italico avrebbe alla fine aperto ogni porta. E sarebbe accaduto lo stesso se avessimo riesumato o riesumassimo dai forzieri il vecchio conio, come ci ammonisce il recente caso argentino. La verità è che un paese debole non può generare una moneta forte. Punto. Aver dilapidato il dividendo dell’euro è dunque il vero peccato mortale commesso da una classe politica che è specchio fedele di un paese perennemente appeso ai colpi di fortuna, tanto da aver accumulato un pesantissimo debito anche con la buona sorte. Chi pagherà gli interessi? E con quale moneta?


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