La cicatrice che non va via - Live Sicilia

La cicatrice che non va via

Lui continuava a ripetermi che dovevo stare zitta. Che la mia voce lo alterava. Fu a quel punto che, per la prima volta, mi diede uno schiaffo. Da quel momento cominciò a picchiarmi con regolarità.

“Chi non ha mai vissuto litigi in una coppia?”. Rita inizia a raccontare così la sua storia, con una domanda. Ha una cicatrice sul labbro superiore. Non andrà più via. Quasi un marchio a fuoco. Una ferita ancora aperta che ha il nome di un uomo, Giuseppe, suo marito. “Un medico rispettato e stimato da tutti – dice Rita – ricordo che mia madre fu felice di consegnarmi a lui. Avevo venticinque anni e il matrimonio mi sembrava la cosa più bella del mondo”. Le esce una lacrima, ma subito si riprende. “Certe ferite bruciano e non si rimarginano mai”.

Rita si sposa, conduce una vita agiata, non le manca nulla. Un figlio, una casa di proprietà e persino una villa al mare. “Mio marito alzava spesso la voce – dice – ma poi tutto passava. Insomma, è normale, no?”. Poi succede qualcosa. “Una stupidata”, confessa Rita. “Siamo andati al supermercato. Lui ha incontrato una collega, le ha rivolto un complimento di troppo, e alla cassa, l’ho rimproverato davanti a tutti”. Giuseppe sorride. La prende in giro. Poi, in auto, guida a tutta velocità. “Conosceva la mia paura della velocità, ma quel giorno ha premuto sull’acceleratore con tutta la forza che aveva”. Tornano a casa. Giuseppe sbatte le porte, le dice che non deve permettersi di rimproverarlo, che deve stare zitta. Immobile. Inizia così l’inferno di Rita.

Da un giorno all’altro, ha cominciato a trattarmi come un oggetto. Sentivo che voleva dominarmi, ma allora mi sembrava un’idea folle”. Lo scenario cambia in modo repentino. “La violenza psicologica è l’anticamera di quella fisica”, racconta Rita. E il suo tono si fa di colpo freddo, gelido. “Io l’ho capito tardi. Ricordo che un giorno tornò dallo studio. Era più nervoso del solito. Nostro figlio era in camera. Lui si arrabbiò perché non avevo ancora preparato la cena. Gli dissi qualcosa, ma lui continuava a ripetermi che dovevo stare zitta. Che la mia voce lo alterava. Fu a quel punto che, per la prima volta, mi diede uno schiaffo. Da quel momento cominciò a picchiarmi con regolarità”. Rita si sente immobile, impotente. Fuori dalle mure domestiche suo marito ha una buona immagine di sé. “Magari dentro di te sai cosa è giusto fare – confessa – ma rimandi perché sei confusa. Forse devi soltanto toccare il fondo per aprire gli occhi”.

E Rita il fondo lo tocca davvero. È sera. Sta stirando le camicie di suo marito, come al solito. Lui rincasa. Ha le chiavi dell’auto in mano. Rita gli dice che deve scendere l’immondizia. Lui grida, prende le chiavi e gliele lancia contro. Rita sanguina dal labbro. La visione del sangue non ferma Giuseppe. Inizia a picchiarla. Senza fine. “Quel giorno picchiò così forte che mi sentii morire”. Rita resta viva. A terra, senza forze, ma viva. Dentro di lei, però, qualcosa muore davvero. Giuseppe esce di casa. A soccorrerla il figlio di dieci anni. “Gli dissi di chiamare la nonna al telefono, poi feci i bagagli. Non ricordo neppure cosa presi. Aprii la porta di casa e me ne andai con mio figlio. Il giorno dopo mi rivolsi a un centro specializzato. Lì ero una tra le tante. Ed eravamo davvero tante”. Oggi Rita si è separata da suo marito. Sta progettando di aprirsi un’attività sua e, nell’attesa, vive da sua madre.

“Noi donne smarriamo la capacità di vedere quello che sta accadendo – racconta -. Non ci rendiamo conto, ad esempio, di subire una violenza fino a quando questa non diventa violenza fisica. Entriamo in un circolo vizioso dal quale è difficile svincolarci. Bisogna chiedere aiuto, uscire dalle mura di casa, e rendersi conto che non siamo sole”. Guarda fuori dalla finestra di casa. “Non riesco a camuffarla neanche con il trucco”, dice, indicando la cicatrice sul labbro. “Ancora oggi mi domando cosa sia successo all’uomo che ho sposato e amato. Grazie all’aiuto dei parenti, abbiamo scoperto che aveva sviluppato una dipendenza patologica per il gioco d’azzardo, ma questo non giustifica la violenza. Adesso lui si sta facendo curare. Dice che vuole tornare ad essere l’uomo che era prima. Il problema però sono io”. Si alza, apre la finestra. “Perché è lei il problema?”. Rita sorride. “Perché io non voglio più tornare ad essere la donna che ero prima. Io oggi sono un’altra donna”. Esce sul balcone. Si accende una sigaretta. “Guardi che bel sole – esclama – finalmente è primavera”.


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