I buoni e i cattivi - Live Sicilia

I buoni e i cattivi

Mi disturba il concetto del distruggere per liberare. Mi rode dentro la schizofrenia di un amore per un Paese che talora si trasforma in delusa avversione.

Nutro per gli Stati Uniti d’America una vera passione da quando, seduto sulle ginocchia di mio nonno, ascoltavo rapito i suoi lunghi racconti di gioventù. L’interminabile traversata sul Pannonia da Napoli a Ellis Island, dove approdò il Primo Aprile del 1906. Le sue prime difficoltà nel Nuovo Mondo. Il suo fiato gelato sui baffi mentre la neve fioccava sul ponte di Brooklyn. Mi sentivo un inetto quando, giovane medico ricco di sogni, sbuffavo impaziente in attesa dello sbarco stravaccato su un sedile di un Jumbo della Pan American. Mi sentivo un mezzo uomo quando, ragazzo venticinquenne ricco di angosce, la sera piangevo pensando alla mia ragazza, alla mia casa, alla mia squadra. L’America fu molto generosa con me donandomi, oltre a tanti amici e ricordi meravigliosi, la sicurezza di poter contare su me stesso. Ed è per questo che tengo ancora sulla scrivania una bandierina a stelle e strisce, regalo di un amico ormai ben più lontano di un piccolissimo oceano.

Eppure, pur con tutto l’amore riconoscente di figlio adottivo tornato alla sua vera madre infingarda, non riesco a ignorare il fastidio che provo per un certo modo, tipicamente americano, di presentare al mondo la propria verità come “Verità”. Il proprio concetto di giustizia come paradigma di equità e onore. Anche quando si parla di certi emuli della giustizia da saloon fatta di sceriffi, con o senza stella, ma con la pistola nella fondina, e di delinquenti da appendere ad un albero senza tanti convenevoli. Ci pensavo lo scorso anno in occasione del settantesimo anniversario della strage del 9 Maggio 1943, quando oltre cinquecento bombardieri americani riversarono tonnellate di bombe su Palermo indifesa massacrando centinaia di civili inermi mentre i loro giornali parlavano di attacchi mirati su fantomatiche industrie chimiche e meccaniche. Una singolare coincidenza con ciò che abbiamo ascoltato, a distanza di alcuni decenni, nelle cronache dal Vietnam o dall’Iraq. Mi disturba il concetto del distruggere per liberare. Mi rode dentro la schizofrenia di un amore per un Paese che talora si trasforma in delusa avversione.

In queste ultime settimane, abbiamo assistito con apprensione agli sviluppi internazionali della crisi tra Ucraina e Russia sulla questione della Crimea. Le posizioni sembrano chiare: da una parte “il cattivo”, l’orso russo dalle mai sopite nostalgie imperialistiche; dall’altra “i buoni” con lo Zio Sam in testa e noi vassalli europei al seguito, ansiosi di accogliere tra le nostre braccia l’ennesima recluta. Un copione scontato, come fosse un film di indiani e cow-boys. Solo che poi, leggendo qui e là, si scopre che la Crimea è russa per etnia, lingua, storia e tradizione e che la sua annessione all’Ucraina fu solo “un regalino” di Kruscev ai tempi dell’Impero Sovietico. E poi ancora s’apprende che il referendum indetto per lasciar decidere ai cittadini stessi della Crimea con chi vogliano stare viene vinto quasi all’unanimità dai filo-russi. Tanto che da adesso una maggioranza così schiacciante, invece che “bulgara”, sarà definita “crimeana”. Posso pure immaginare che ci siano stati dei brogli, o che il clima del referendum non fosse proprio sereno. Ma trovo inverosimile che una corsa vinta con tanto distacco possa essere truccata.

E allora dove sta la verità? Dove il Bene? Dove la Giustizia? Ho atteso con ansia che qualcuno degli osservatori mi chiarisse le idee. Che qualcuno s’appellasse al principio, in apparenza mai abrogato, di autodeterminazione dei popoli. Che in questo caso non serve al più ricco per distaccarsi dal compatriota straccione, quanto ad un popolo per tornare alla propria madre-patria. Che qualcuno dei “nostri”, di là o di qua dell’Atlantico, si ponesse il dubbio se davvero, come sempre, “i cattivi” sono gli altri e“i buoni” noi. Noi che ci riempiamo la bocca delle parole “democrazia” e “libertà”, ma che forse, come diceva il mio co-inquilino brasiliano di Washington, di libertà ne abbiamo ormai una sola: Coca o Pepsi.


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