Chi ha paura | di quello scivolo rom? - Live Sicilia

Chi ha paura | di quello scivolo rom?

Una casa ai rom? Una sollevazione popolare ha accolto le parole dell'assessore Giusto Catania. Siamo forse diventati razzisti?

PALERMO - IL CASO
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Il putiferio è scoppiato quando Giusto Catania, assessore alla Partecipazione del comune di Palermo, ha detto: “Saranno inseriti dentro un quadro generale di emergenza abitativa della città. Dobbiamo garantire la possibilità a queste persone di poter vivere in un appartamento, è un loro diritto e lo meritano allo stesso modo delle centinaia di famiglie palermitane”. Parlava dei rom della Favorita, l’assessore. Parlava del campo, abbandonato da secoli, e del suo destino. Parlava della solidarietà di chi ha donato qualche giocattolo ai bambini rom, uno scivolo, qualcosa per fare sentire meno lontana l’infanzia. La brava gente si è ribellata. I commenti alla cronaca in cui si riportano le frasi dell’assessore sono acuminati. Quello scivolo e quella promessa sono stati trattati alla stregua di un insulto, di uno schiaffo, di un’indecenza.

La casa ai rom? – ecco il lamento di fondo – con tutti gli autoctoni che si arrangiano senza un tetto sopra la testa? Unanime la conclusione: l’assessore è impazzito. Anzi peggio, è comunista. Anzi, probabilmente la sua ostinazione a chiamarsi “Catania”, nonostante occupi il posto di assessore a Palermo, ricorda l’arroganza del personaggio di un film di Bud Spencer e Terence Hill che si faceva chiamare Tango nel paese del Samba. Un’ignominia. Una vergogna.
Ci sono storie e scivoli che, da oggetti materiali o immateriali, si trasformano di colpo in porte girevoli sul segno dei tempi. Attraversarle significa comprendere un po’ meglio chi siamo noi, i famosi contemporanei. E dunque, chi siamo noi, i famosi contemporanei palermitani, alle prese con lo scivolo e con i rom della discordia?

Siamo razzisti. Siamo capaci di pronunciare – e pensare, cosa ancor più grave – affermazioni da rizzare i capelli. Gli ‘zingari’ come zecche. Gli ‘zingari’, animali che prosperano al caldo, come pidocchi e parassiti. Siamo nel perimetro classico della deumanizzazione che è il nutrimento primordiale di ogni forma di razzismo. Il deumanizzato, colui che non è più uomo, è pronto per essere chiuso in un campo di concentramento, o in una camera a gas. Una scoria da eliminare. Un avanzo della tavola da spazzare via. Non riconosciamo più in lui il prossimo, la somiglianza, la vicinanza che lo rende non alieno. Non soffriremo della sua morte e della sua rovina, perché non sarà morta una parte di noi. La distruzione dello straniero lascia immune la tribù che la sopporta senza battere ciglio, quando non la promuove.

La stessa paura dell’estraneo che conduce all’odio si rinnova tra palermitani. I residenti dei quartieri alti contro gli abitanti dello Zen e viceversa, in un rimpallo di timore e avversione. Nell’occhio razzista scompare l’individuo. Predomina la moltitudine formata da volti indifferenziati. Non c’è distanza tra rom e rom, sono identici, uniformati al medesimo codice, alla stessa dannazione, alla maledizione che li caratterizza nella mente dei benpensanti.

Siamo solo razzisti? No, siamo anche spaventati. Lo spavento è un perfetto ingrediente per alimentare rabbia e violenza verbale, che aprono i campi di concentramento nel cuore, camere a gas ideologiche. Siamo terrorizzati dalla crisi, dalla povertà presente o incombente. Dallo stipendio (per chi ancora lo conserva) che copre appena due settimane e mezzo e lascia nudo il resto. Non si lavora. O si lavora per soffrire, per avere fame, per non conservare mai sogni o visioni in un presente che non può concedersi il lusso di lanciare un ponte verso domani. Con un desco talmente ristretto, è normale che la sicurezza degli altri abbia il colore della nostra insicurezza. Poiché non ce n’è per tutti, il cibo che sarà dato a un altro, sarà tolto a me. Il tetto che custodirà i giorni di una famiglia rom, sarà negato ai miei figli.

Nel cortocircuito di un’economia di guerra che genera una psicologia fragile, la ferocia prende campo, perché nasce dalla debolezza, dallo sgomento di chi si sente denudato nelle sue proprietà e nelle sue relazioni fondamentali. E qui c’entra pienamente la responsabilità della politica. Che non trova soluzioni al male dilagante, forse perché è impossibile trovarle, ma che nemmeno sa cavare dal dolore una parola sensata per dare coraggio e spirito ai segni dei tempi. Una parola calibrata e misurata. La politica offre parole sbagliate. Improntate all’ira che crea consensi in chi non ha nulla più da perdere, oppure ispirate a una solidarietà pelosa, semplicissima sulla carta e nel cerchio magico del privilegio, complicatissima per chi striscia quotidianamente col suo fucile e il suo zaino carico, all’ombra di una trincea.

Oltre l’ultimo pezzo di quello scivolo, ci sono quei rom che rubano e che hanno scelto un’esistenza da parassiti, ci sono quei migranti che formano delle inestricabili gang e aggiungono sopruso a sopruso in parti della città mai sfiorate da legge e ordine. Ci sono i palermitani violenti e incivili. Ci sono troppi che pretendono di succhiare il sangue da una comunità esausta, senza condividerne doveri e responsabilità. Di costoro non si può discutere in termini solidaristici e umanitari, quando c’è la ripetizione dell’errore. Bisognerebbe prendere atto, per rintracciare rimedi adeguati. Ma non speriamo che ciò possa davvero accadere. Questa politica coccola e vezzeggia il peggio, per un malinteso sentimento democratico, o lo sfrutta per lanciare anatemi redditizi in salsa leghista. Questa politica non sa più chiamare cose e persone col nome appropriato. E’ disorientata, arrogante e irrilevante. E’ Tango nel paese del Samba.


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