Palermo, mafia di Porta Nuova | Le accuse reggono, tutti in carcere - Live Sicilia

Palermo, mafia di Porta Nuova | Le accuse reggono, tutti in carcere

Le istanze di scarcerazione sono state respinte una dopo l'altra. In sette restano in carcere. Sono Tommaso Lo Presti, Emanuele Vittorio ed Onofrio Lipari, Nunzio Milano, Marcello Di Giacomo, Stefano Comandè e Francesco Zizza.

DOPO IL RIESAME
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PALERMO – L’inchiesta di carabinieri e pubblici ministeri si conferma solida. E passa il vaglio del Tribunale del Riesame dopo quello del Gip che aveva convalidato i fermi. Tutti, tranne uno.

Le istanze di scarcerazione sono state respinte una dopo l’altra. Sette mafiosi, o presunti tali, di Porta nuova restano in carcere. Sono Tommaso Lo Presti, classe 1975, detto ‘il pacchione’, Emanuele Vittorio ed Onofrio Lipari, Nunzio Milano, Marcello Di Giacomo, Stefano Comandè e Francesco Zizza.

Gli indizi di colpevolezza, secondo il Riesame, sono solidi. Gli indagati avrebbero partecipato – concretamente e attivamente – alle dinamiche del mandamento di Porta Nuova. Un mandamento segnato da venti di guerra. Era stato ammazzato Giuseppe Di Giacomo, freddato alla Zisa, e altri hanno rischiato di morire perché l’ergastolano Giovanni, fratello della vittima, aveva programmato la sua vendetta. La reazione doveva essere feroce. Come feroce era stato l’omicidio. Giovanni, mafioso storico di Porta Nuova, killer del gruppo di fuoco di Pippo Calò, avrebbe coinvolto un altro fratello, Marcello, nel progetto di eliminare coloro i quali riteneva fossero i mandanti del delitto: Onofrio ed Emanuele Lipari.

I carabinieri del Nucleo investigativo capirono che bisognava intervenire in fretta. E così il procuratore aggiunto Leonardo Agueci e i sostituti Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco decisero di procedere con un fermo. Il 17 aprile Giovanni Di Giacomo in carcere aveva ricevuto un telegramma. Il mittente era Marcello: “Caro Gianni la salute del bambino tutto bene in unico abbraccio ti vogliamo bene”. Secondo i carabinieri, altro non era che la comunicazione dell’imminente messa in atto del piano di morte. Da qui l’urgenza dell’intervento dei militari.

Dopo l’arresto di Alessandro D’Ambrogio, leader del mandamento di Porta Nuova, Giuseppe Di Giacomo aveva scalato le posizioni di potere, forte della parentela con il fratello. Nei mesi della sua ascesa, frenata con il piombo, erano sorti malumori. Ai Di Giacomo non era piaciuto l’atteggiamento dei Lipari, ritenuto “troppo distante”. I Lipari, padre e figlio, volevano prendersi “il pannello”, e cioè gli incassi delle sale scommesse della vittima. E così scattò la reazione. Giovanni Di Giacomo ordinò al fratello di riferire a Tommaso Lo Presti, che nel frattempo sarebbe tornato a comandare, di uccidere i Lipari: “… si preparano fanno l’appuntamento e mentre c’è il discorso fanno bum bum e s’ammogghia tutto”.

Tra chi all’inizio non avrebbe gradito la scalata di Giuseppe Di Giacomo ci sarebbe stato anche Nunzio Milano. E lo aveva detto chiaro in faccia all’ergastolano durante un faccia a faccia in carcere. Era il più anziano di tutti e una volta finita di scontare la propria pena avrebbe preteso di prendere il bastone del comando. Anche lui, alla fine, però, avrebbe obbedito a Giovanni Di Giacomo.

Sono tutti finiti in carcere. Stessa sorte è toccata a Stefano Comandè e Francesco Zizza. Il primo sarebbe stato uno dei più recenti affiliati in un mandamento che cercava nuove reclute per infoltire le truppe fiaccate dagli arresti. Comandè sarebbe così divenuto l’uomo che aiutava le famiglie dei carcerati. Dunque, colui che amministrava parte del denaro della cosca. Infine, Zizza: anche lui sarebbe uno dei volti della nuova mafia che comanda nella zona centrale di Palermo. Accompagnava i Di Giacomo, Marcello e Giuseppe, ai colloqui, con il fratello. Ascoltava in silenzio e sbrigava piccole faccende per conto del clan. Fino a quando non si decise di premiarlo. Era pronto al grande passo. “Facciamo pure il battesimo di questo”, disse Marcello chiedendo e ottenendo il permesso dal fratello Giovanni. Che dal carcere tutto comandava e tutto reggeva.

I sette arrestati per i quali il Riesame ha confermato l’arresto avrebbero garantito la continuità nel mandamento del dopo D’Ambrogio. Chi invece, nulla c’entrerebbe sarebbe Salvatore Gioeli che al Gip che lo scarcerò disse: “Signor giudice faccio il cameriere, non mi faccia pagare per colpe che non ho commesso”. E venne scarcerato. L’unico scarcerato.

 


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