Da ventisei mesi senza stipendio | Giuseppe: "Non ce la faccio più" - Live Sicilia

Da ventisei mesi senza stipendio | Giuseppe: “Non ce la faccio più”

Quarantadue anni, tre figli, da più di due anni non riceve un euro dal suo ente di Formazione. E oggi ha deciso di incatenarsi di fronte all'assessorato. Attorno al quale aleggiano i drammi degli altri lavoratori: gli usurai, la vendita delle fedi, i tentativi di suicidio. Nonostante le rassicurazioni del governo: "Non faremo macelleria sociale".

PALERMO – Giuseppe somiglia a un motorino senza benzina. Legato con le catene, sotto il cartello della “zona rimozione”. “Non risolve nulla, rimanendo lì” gli ha detto qualcuno dell’assessorato alla Formazione. Pochi metri più in là. “Me lo dicano loro come posso risolvere qualcosa, allora”, chiede Giuseppe. Che da lì non intende muoversi.

Per lui, la matematica della vita porta in dote una somma drammatica. Quarantadue anni. Tre figli. Da ventisei mesi senza stipendio. Ventisei mesi. Che fanno più di due anni. “Me lo dicano loro, come posso tirare avanti”. Giuseppe Raddusa, catanese, dipendente dell’Aram Iefp va avanti da allora. Va avanti. Senza benzina. Ogni giorno si reca a lavoro. Fa il suo. Torna a casa. E attende. Al suo ente mancavano delle fidejussioni. Per questo non poteva ricevere i mandati di pagamento. Il problema, almeno questo, è stato risolto. Ma per Giuseppe non è cambiato nulla. “Da almeno quattro mesi – racconta – l’assessorato ha tutto quello che occorre. Cosa mi hanno risposto? Che manca il personale. Che non è sufficiente. Che bisogna pazientare”. Pazienza. Una parola che a Raddusa sembra ormai suonare come uno sfottò. Una presa in giro. “Pazienza. Io mi sono rivolto agli usurai – spiega – e ho debiti con tutta Catania. Adesso nemmeno gli amici mi prestano più un euro”. Sanno che non potrà restituirli. “E anche io, ormai, ho smesso di chiedere”.

Ventisei mesi sono tanti. Ma per un po’, Giuseppe ha potuto mettere la benzina in quel motore. “Mi manteneva mio padre, con la sua pensione – racconta – ad agosto mi ha lasciato. E non posso più contare nemmeno su quella”. Essere mantenuti dal padre. Dalla sua pensione, a 42 anni. Perché la storia degli stipendi in ritardo, della Formazione degli scandali e delle inchieste, dei lavoratori – nemmeno loro lo negano – cooptati negli enti con meccanismi puramente clientelari, e oggi in molti casi “illusi” dalla propaganda rivoluzionaria, è anche la storia di piccole e grandi umiliazioni. “Mio padre andava a fare la spesa di nascosto – racconta Giuseppe – e mi faceva trovare i sacchetti a casa. Ogni tanto sul tavolo trovavo una banconota da cento euro. A volte scomparivano le bollette: le prendeva di nascosto, e ci pensava lui”. Adesso lui non c’è più. Non c’è nemmeno questo. Quella specie di ammortizzatore dove gli ammortizzatori non arrivano. E le scaffe del quotidiano lasciano segni evidenti. “Mia moglie si è ammalata – continua Giuseppe – è finita in psichiatria, con crisi depressive. E nel frattempo io devo comunque pensare ai miei tre figli”. Per i quali Giuseppe non ha trovato i soldi per garantire i libri. “Sono andato a scuola, ho allargato le braccia: non avevo i soldi. I professori hanno capito. La scuola ha capito. E sono intervenuti”.

Non ce la fa. Ventisei mesi sono troppi. “Ormai vivo alla giornata. Chiedo dieci euro qui, dieci euro lì. O vado alla Caritas”. A mettere benzina. Attorno a Giuseppe arrivano alla spicciolata. Colleghi. Agli sgoccioli, anche loro. Con la spia ferma sul rosso fisso, già da un po’. E i racconti si susseguno come una galleria della disperazione. “Ho venduto la fede”, dice uno di loro, aprendo “a cinque” la mano. “Un giorno – racconta un altro – ho sentito una mia collega dire al telefono che avrebbe dovuto vendere la stanzetta dei ragazzini. Per settecento euro. Chiedeva a qualcuno di rassicurare i ragazzi che avrebbero presto comprato una stanza più bella. Ho dato io quei soldi alla mia amica e le ho lasciato la stanzetta”. La solidarietà dei lavoratori della Formazione è la solidarietà degli arresi: “E’ come – raccontano – se fossimo tutti in alto mare, pronti ad annegare. E ogni volta ciascuno di noi aiuta un altro a restare a galla, ancora per un po’”. Cioè a non farla finita. “Come un ragazzo di Caltanissetta – dicono quasi in coro – che oggi ci ha chiamato. Si voleva suicidare”.

La stanzetta dei bimbi, le fedi, gli usurai. Il dramma della Formazione professionale siciliana è tutto lì. Nelle microtragedie che stanno al di sotto delle pagine dei giornali. Sulle quali piovono le rassicurazioni del governo: “I lavoratori saranno garantiti. Non faremo macelleria sociale”. “In effetti non possiamo parlare di macelleria sociale – ironizza Maurizio Galici, sindacalista dei Cobas che sta seguendo il ‘caso’ di Raddusa – ormai si può parlare di un negozio in cui vendono la nostra carne tritata. Qui stiamo morendo tutti. E in fondo, nonostante si parli di rivoluzione, non è che sia cambiato molto. O vogliono farci credere che gli unici ‘sporchi e cattivi’ fossero Genovese e i suoi amici? Gli amici degli amici continuano a comandare. Come prima. La rivoluzione? Se è questa, è meglio che Crocetta la faccia a casa sua”. “Questa è l’antimafia del presidente? – protesta qualcun altro – non ha capito che affamandoci tutti, non fa altro che un regalo alla mafia”. La tensione è alta. Altissima di fronte l’assessorato. Basta persino l’occhiata di un funzionario dell’assessorato che passa di lì con la sua moto, per innescare la lite. Il funzionario lascia perdere. E accelera. La sua moto va. La benzina non manca. Giuseppe, 42 anni, tre figli, 26 mesi senza stipendio, invece, è fermo lì. Incatenato. Senza benzina e sotto la “zona rimozione”. Da cui non intende nuoversi. “Finché non mi spiegheranno come possa andare avanti”. “Non faremo macelleria sociale”, rimbalza intanto sui giornali. Ma la Formazione siciliana, anche nell’era della rivoluzione, è un macello.


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