Il Festino del Santuzzo | Fischi o applausi per Luca? - Live Sicilia

Il Festino del Santuzzo | Fischi o applausi per Luca?

Questo sarà il Festino che darà una misura del consenso del sindaco Orlando. Saranno applausi, fischi, o indifferenza?

Il Festino di Palermo è un rito pagano, impossibile da spiegare ai forestieri, se non in termini folcloristici di santuzze, babbaluci, sudore, fuochi: gli attori consumati del’iconografia di una celebrazione che assume su di sé il carico della speranza di ognuno, delle necessità di tutti, del malumore che la città cova nella sua pancia.

L’ira frigge nelle chiacchiere, nelle imprecazioni, nei colloqui dei tanti che aspettano la masculiata dei razzi sparati a chiusura. Una drammaturgia necessaria di buio e illuminazione attraversa gli umori dal Cassaro alla Marina. E’ la contrapposizione non intellegibile per gli stranieri. Come aspirazione, gioia, rassegnazione e rabbia possano convivere scenograficamente nello stesso teatro, per trovare la sintesi di una recita che non si può definire altrimenti, se non “palermitana”.

Palermitani sono i babbaluci, le lumache che vengono afferrate per il guscio e risucchiate, secondo costume gastronomico-barbarico. Palermitane sono le immancabili polemiche. Palermitana è l’attesa che scuote una comunità sonnolenta. Dormiamo per il resto dell’anno. Malediciamo i tentacoli del ciaffico che ci stringono, il caldo, le zanzare. Eppure, con un soprassalto di decadente orgoglio, nella notte tra il 14 e il 15 luglio – la successiva manifestazione religiosa, con la messa cardinalizia, riveste la funzione del brodino tiepido dopo una scorpacciata – noi issiamo sul cuore il vessillo della palermitanità, qualunque significato abbia una parola talmente multiforme. Noi, che viviamo da monadi, nella notte della Santuzza che sfila col suo carro, apparteniamo a Palermo. Insieme. Rinnoviamo la promessa di fedeltà a noi stessi, tra una lumachina ingoiata in fretta e un’occhiata di stupore superstite, di felicità da bambini, ai fuochi che accendono il cielo.

E siccome, in tutte le epoche, la pancia del popolo ha un peso di rilievo nell’esibizione del consenso attribuito al sovrano democratico, temporaneamente sul trono, il Festino ci dirà qualcosa di profondo sulla natura del rapporto che intercorre tra i palermitani e il sempreverde sindaco Leoluca Orlando.

Il fantasma del rito del presente ha un volto antico e un aspetto nuovo. Nell”acchianata’ che il primo cittadino è costretto a subire, inerpicandosi sul carro votivo, fino a espettorare con l’ultimo respiro il suo “Viva Palermo e Santa Rosalia”, c’è il simbolo di un abbraccio immutabile. Palermo si unisce alla sua Santuzza collettivamente. E’ una benedizione che riguarda tutti. Una supplica rivolta alla ragazza di Monte Pellegrino, per delega generale, affinché sia misericordiosa e continui a stendere il suo manto sulla città, per preservarla dalla peste. Nessuno può sentirsi escluso, nemmeno i radical chic che girano la testa dall’altra parte e che al Festino non ci vanno, “perché c’è troppa gente”. Certo che c’è. E ci sono cattivi odori, liquidi corporali che si mischiano, i baci scambiati da guance madide di sudore. I corpi si uniscono fisicamente, per formare un corpo solo, non mistico, da esporre all’occhio che si suppone benevolo di Rosalia. L’urlo del sindaco ricalca il miracolo di San Gennaro adempiuto in salsa nostrana. Non c’è flagello che intacchi la fiducia. Pure quando trionfa la peste di un paesaggio diroccato, c’è la Santuzza. Anzi, la Santuzza c’è e deve esserci, proprio perché c’è la peste.

Quest’anno sussiste un elemento di forte curiosità, il fatto nuovo. C’è un sindaco che ha governato, nel bene o nel male, che ha compiuto scelte in rilievo, che ha abbozzato la sua idea di cosa dovremmo essere nel futuro prossimo e remoto, seguendo una direzione. Leoluca Orlando – intramontabile borgomastro panormitano, denominato ‘Il Professore’, con potenziale fotogallery a corredo per mostrarlo giovane e magro, poi con i capelli un po’ brizzolati e qualche taglia in più, e narrare così le tappe di un lunghissimo regno – ci ha raccontato come la pensa e cosa vuole fare, con prese di posizione che hanno suscitato applausi o anatemi, ma che comunque si sono verificate, dopo mesi di studio, dopo un periodo di ‘vacatio’ della precedente amministrazione. Questo sarà il Festino del consenso o del dissenso, tra la pancia e il lume di un parere sperimentato, non inficiato dalla luna di miele iniziale, né strangolato in culla dai colpi di coda di un’esperienza terminale. C’è una fisionomia, c’è un’esperienza su cui ragionare e dividersi.

Lui, ‘Il Professore’, sa che Palermo è destinata a morire, che sprofonderemo, rompendo la crosta di ghiaccio sull’abisso, se l’orizzonte si incardina appena appena sull’orologio del giorno in transito. Sa che dobbiamo danzare sul gelo, respirare e sognare ciò che verrà dopo, per nutrire qualche ambizione di salvezza. Riuscirci è ovviamente un profilo diverso dalle ipotesi. Cosa pensano i palermitani di Orlando – ecco il punto cruciale – e della rotta che ha indicato? Come hanno accolto la sua promessa di rivoltarci come un calzino, mediata da un ormai congruo lasso di tempo? Come valutano le mosse della giunta: retorica inefficace o trampolino di slancio per il domani? Lo scopriremo nella notte della Santuzza, quando l’Immortale salirà sul carro per ottemperare alla scenografia della benedizione e sarà coperto da battimani, da fischi, o dall’indifferenza.

Si sbaglierebbe a sottovalutare il senso dell’attimo fuggente. “Viva Palermo” etc… offre una prospettiva unica, è il momento in cui i cittadini scrutano il primo di loro, inizialmente esposto nella sua nudità, successivamente ricoperto dal manto che lo rende all’istante il Santuzzo, cioè colui che, con l’ausilio della Santuzza titolare, dovrebbe debellare la peste, o consolare, in alternativa, gli appestati. E’ l’esatto frangente in cui, al netto di claques che pure ci sono state, un sindaco rinnova il suo matrimonio con Palermo, o lo vede naufragare, per cui resterà in sella, magari per anni, ma come una comparsa, un dato irrilevante, in caso di divorzio. Soprattutto l’indifferenza – la stessa riservata, per esempio, a Diego Cammarata nelle apparizioni residuali – sancirebbe un clima di definitivo disamore. I fischi manifesterebbero una sorda rabbia. E sarebbero comunque meglio di niente, perché garanti di un legame umano. I battimani santificherebbero il governo in sella e lo corroborerebbero per le ordalie successive.
Di carne al fuoco ce n’è. Le pedonalizzazioni. La Favorita. Le cabine di Mondello. La pulizia. La movida. La Gesip. Tutto il materiale che ribolle dal mare al monte. Tutta una rappresentazione di Palermo da mettere alla prova, nella sua coerenza, nelle sue connessioni, nella sua concretezza.

Leoluca Orlando non ha mutato canovaccio, non è, in fondo, il rottamatore di se stesso. Procede secondo le regole che conosce. Lancia messaggi sul verde, sui parcheggi, sulle pratiche minute del vivere, mentre inaugura un giardino dedicato a Sigmund Freud. E’ il famoso strabismo orlandiano che lo tiene sulla cresta dell’onda, con un occhio alla munnizza e uno alla Mitteleuropa. Col cuore a Palazzo delle Aquile e la testa a Palazzo d’Orleans, in una agognata e futuribile disfida per il simulacro della vera ambizione leoluchiana. L’impressione è che la retorica di Leoluca e dunque, appunto, leoluchiana sia un argomento spendibile, una narrazione che si rinnova intatta, nella testa e nella pancia di alcuni, pochi, o molti che siano.

Lo vedremo nella notte della Santuzza. Ascolteremo il verdetto del popolo. Conosceremo, nello specchio del Festino il destino del Santuzzo. In diretta tasteremo le pulsazioni del polso di Palermo. Avremo ancora una volta paura della peste. Ancora una volta pregheremo la fanciulla sul monte, affinché sia misericordiosa e ci inondi di grazia.

 

 

 

 

 


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